«Hanno l’occasione per mandarmi a casa. Lo facciano». La sfida non potrebbe essere più chiara, non si discute più di legge elettorale ma della sopravvivenza del governo Renzi. Il derby dell’Italicum può iniziare. E all’antivigilia del fischio di inizio il presidente del Consiglio va in televisione (Otto e mezzo) e annuncia: «Martedì decideremo se mettere la fiducia». Ma è come se fosse già stato deciso: «Se L’Italicum non passa il governo cade. Possono mandarmi a casa, non fermarmi».
E così tutti gli appelli alla prudenza vengono travolti. Il presidente del Consiglio mostra di ignorare i suggerimenti a evitare la forzatura, non chiedere un voto di fedeltà all’esecutivo sulla legge che – lo diceva lui stesso – «va discussa con tutti». Ma a ben vedere è dal primo giorno che Renzi pone la questione di fiducia, da quando minaccia la crisi e le elezioni anticipate a ogni passaggio non solo dell’Italicum ma anche della riforma costituzionale. Lo ha fatto anche quando il presidente della Repubblica non c’era e dunque le camere non potevano essere materialmente sciolte. Ma da quando la possibilità di un voto segreto sull’Italicum si è fatta più stringente, Renzi è passato agli annunci più stringenti. Attribuendo alle minoranze la responsabilità. «Le opposizioni hanno scelto di non combattere questa battaglia a viso aperto ma di chiedere il voto segreto», ha detto ancora una volta ieri la ministra Boschi. Ma il voto segreto sulla legge elettorale è previsto dal regolamento, la fiducia su questa materia ha solo i precedenti non illustri della legge Acerbo e della legge Truffa.
D’altro canto non erano state solo le opposizioni, non era stata solo la minoranza del Pd a chiedere di evitare la fiducia. Anche due fondamentali alleati di Renzi come il presidente del Pd Orfini e il ministro dell’interno Alfano avevano invitato a non farlo. Ma il presidente del Consiglio evidentemente teme che la minoranza interna possa fare il pieno (un’ottantina di voti assai teorici) oppure non può ancora pienamente contare sull’appoggio dei franchi tiratori «tendenza Verdini» di Forza Italia. Non se la sente di affrontare i rischi del voto segreto. Avrà allora bisogno di quattro voti di fiducia, uno per ognuno dei quattro articoli che compongono l’Italicum. Ma non potrà evitare un voto finale sul provvedimento, almeno uno, a scrutinio segreto.

Eppure, per quanto il presidente del Consiglio abbia detto ieri in televisione che sulla fiducia il governo deciderà martedì – serve un consiglio dei ministri che autorizzi la ministra Boschi a porla – l’esigenza di scansare un voto segreto nell’aula della camera si porrà anche prima. Perché già lunedì mattina, prima che cominci la discussione generale sulla riforma elettorale, il regolamento di Montecitorio consente che vengano messe in votazioni le questioni sospensive e le pregiudiziali di costituzionalità. Le avanzeranno certamente Sel, M5S e FI. Sulle pregiudiziali la prassi prevede il voto segreto. Il governo potrebbe bloccare anche questo con la fiducia. Una mossa assai grave, che impedirebbe all’aula di esprimersi liberamente sulla rispondenza dell’Italicum ai principi costituzionali e alla sentenza del gennaio 2014 della Consulta che ha abbattuto il Porcellum. Una mossa che aumenta il rischio di approvare la seconda riforma elettorale destinata a cadere davanti ai giudici delle leggi. Non ci sono molti precedenti, il costituzionalista Andrea Pertici, vicino a Pippo Civati, ne ha trovato uno dell’agosto 1980 quando la fiducia sulla pregiudiziale (si discuteva la conversione di un decreto legge) fu chiesta dal governo Cossiga. E fu ammessa – dopo un dibattito nel quale Stefano Rodotà deputato della sinistra indipendente si pronunciò contro – dalla presidente della camera Nilde Iotti.
Intanto ieri Enrico Letta è tornato a criticare Renzi per la scelta di procedere sull’Italicum «con una maggioranza risicata, con la contrarietà di tutte le opposizioni, esterne e addirittura anche interne». Sulla stessa linea anche D’Alema: «La legge elettorale è materia squisitamente parlamentare, il governo dovrebbe occuparsi di governare».