Alcune note di lettura per Pensare al non vedere

Derrida: nel mondo intellettuale contemporaneo, chi non si è mai imbattuto nel suo nome, chi almeno una volta non ne ha parlato, scritto, o discusso? Tutti – ma se non tutti, tanti – l’hanno interpretato e utilizzato e persino ne hanno stravolto a piacimento le teorie e lui, in quanto pensatore, è certamente stato uno degli ultimi a esercitare questo fascino e questa efficacia. Tutto questo è sicuramente avvenuto fino alla morte, cioè al 2004, perché negli ultimi anni, quantomeno in Italia, sembra che il lavoro e la voce del francese siano passati pressoché sotto silenzio. O meglio: la sparizione della sua immagine pubblica ha lasciato il posto al vuoto, a noi, al nostro rapporto diretto con le sue tracce, i suoi libri, la sua ricerca, rivelando in pieno una complessità immane che distanzia, una complessità che però fa rima con necessità e novità, perché si tratta di un’opera che sembra ancora anticipare i tempi e si mostra ancora tutta da scoprire – e qui, ora, viene forse fuori una voce a suggerire: torniamo a leggere Derrida, ma a leggerlo con l’attenzione che merita, come un classico.

In merito, una occasione propizia può sicuramente essere l’ultima pubblicazione in ordine di tempo del lavoro del nostro da parte di Jaca Book, la casa editrice di Milano che da tempo si occupa di diffondere da noi il pensiero dell’autore francese: Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile. A cura del filosofo e traduttore Alfonso Cariolato (suo, inoltre, l’importante saggio introduttivo), questa edizione italiana della raccolta di interventi di diversa forma e per diverse occasioni che il pensatore ha scritto e detto nel corso di molti anni può senza dubbio funzionare come una sorta di ideale introduzione o preparazione al Derrida più teorico sulle questioni intorno all’immagine e dentro le trame del visibile – e qui il riferimento va soprattutto a La verità in pittura, dove sono articolate e presentate le nozioni fondamentali e continue del suo pensiero sull’arte.

Per questo, anche, val la pena presentare alcune possibili note per meglio avvicinarsi alla lettura di questa raccolta.

La scrittura, la firma

Nell’affrontare Derrida il primo problema è senza dubbio quello della sua scrittura, così spesso densa e a tratti oscura. La questione si ripresenta anche in questi interventi sulle arti del visibile, dove però si offre, forse, una possibile soluzione.

Nel suo saggio introduttivo, Cariolato scrive: «Non si tratta di pensare il non vedere nel senso di darlo a vedere, di rendere infine visibile l’invisibile – soprattutto non questo. Piuttosto: che pensiero sarà un pensiero meno obbligato dalla classica analogia con la vista, dalla metafora della luce di contro all’oscurità, del far luce, del rendere chiaro, del far vedere ciò che comunque è già nell’orizzonte della vista? Non un pensiero che scelga l’oscurità in luogo della luce, operando così una semplice inversione, ma un pensiero che tenti – con uno scarto rispetto a ciò che è dato vedere, al visto – di pensare il non vedere.»

Da qui si potrebbe suggerire che quella di Derrida scrittore sia un’etica della scrittura in relazione a tale sforzo, e cioè un esercizio teso a tradurre l’illeggibilità di determinate questioni attraverso una certa scientificità. Come a dire: se cerco o teorizzo x, non posso che di conseguenza piegare il mio linguaggio alle condizioni poste da una tale esigenza.

Ora, premesso questo – qualcosa che ovviamente esclude gli scritti nel libro che per determinate ragioni sono più scorrevoli (ce ne sono molti) – si può arrivare a focalizzare l’attenzione sulla importanza della firma come nozione, qualcosa che è alla base di molte riflessioni presenti in questo volume. E qui è Derrida a parlare: «Non basta semplicemente scrivere il proprio nome per firmare. Su un modulo di immigrazione si scrive il proprio nome e poi si firma. La firma è dunque altra cosa rispetto a un nome semplicemente scritto. È un atto, un performativo mediante il quale ci si impegna in qualcosa, con il quale si conferma in maniera performativa che si è fatto qualcosa – che è stato fatto e che sono io che l’ho fatto. Una simile performatività è assolutamente eterogenea; è un resto esterno a tutto ciò che nell’opera significa qualcosa. Qui vi è un’opera – lo affermo, lo controfirmo. Vi è un esserci [être-là] dell’opera che è più o meno l’insieme degli elementi semantici analizzabili. Un evento ha avuto luogo.»

Come un metodo sperimentale

Ora, data la firma come inizio, l’impressione è che si possa poi risalire a tutte le nozioni e suggestioni potenzialmente collegabili che Derrida espone o articola – come, per esempio, quella assai particolare di tratto. Ma a questo punto, come logico, occorre fornire indicazioni sul lavoro del pensiero del nostro. E cioè: qual è il movimento che lega il tutto, quale la sua qualità prima?

Sia che si tratti di considerazioni di carattere più generale sulle tracce del visibile – la prima parte del libro – sia che si tratti di tutti gli interventi intorno alla «retorica del tratto» in relazione alla pittura e al disegno – la seconda e più corposa parte del libro (qui leggiamo Derrida su questioni estetiche e teoriche ma anche su numerosi artisti, per esempio Colette Deblé, Salvatore Puglia, Valerio Adami, Jean-Michel Atlan) – sia ancora che si tratti di quanto scritto e detto dal francese su fotografia, video, cinema e teatro – la terza parte del libro (qui si trovano molte riflessioni teoriche relative alla «spettralità dell’immagine» e testi sui fotografi Shinoyama Kishin, Frédéric Brenner, il videoartista Gary Hill, ma anche sul teatro come per esempio su Daniel Mesguich) – ciò che sembra rimanere una costante è come il pensiero all’opera di Derrida abbia la forza e la forma di uno scavo continuo e sistematico che separa gli elementi di una trama di segni e significati, approfondisce le loro relazioni, ne individua i punti critici. Uno scavo il cui nome è forse quello – celebre – di decostruzione, e che non può che configurare lo stesso pensiero come azione invisibile e suggerire, alla fine, una analogia tra la comprensione filosofica di un Derrida e la metodologia sperimentale di un Galileo. Forzatura? Forse. Ma se si presta ascolto al pensatore francese, se si leggono le pagine di questo libro, quanto si percepisce dal montaggio di osservazioni, ipotesi, verifiche, formulazioni – sempre incessante, sempre mancante – non sembra molto lontano da certo cimento.

Come se Derrida fosse una sorta di fisico del pensiero.

Perché l’arte

In ultimo, vale la pena entrare in merito alla presenza dell’arte nel pensiero di Derrida – o meglio: porre una considerazione, delineare una traccia.

Ipotizziamo: a differenza di altri campi del sapere e dell’agire umano, è forse qui che si muove meglio la decostruzione derridiana – perché meno vincolata da strutture e sovrastrutture, perché in relazione potenziale più diretta con quanto dell’immagine si sottrae alla rappresentazione, perché più in grado di rivelare la soggettività di chi vede e di chi parla.

Di tutto questo è forse rivelatore l’ultimo scritto presente nella raccolta. Uno scritto, se si vuole, autobiografico. Uno scritto bellissimo, del 2004.

Invitato da La Quinzaine littéraire a dire la sua in merito a un’indagine rivolta a un centinaio di autori – tema: «Pour qui vous prenez-vous? [Per chi vi prendete? / Per chi si prende?]» – Derrida riesce in poche righe a far capire come l’elaborazione di una immagine di sé, esempio limite della creazione di qualsiasi immagine (aggiungiamo noi), non possa che finire in una sorta di non-finito, e quindi l’arte – in questo caso – non possa che essere intesa come azione tesa a questa sospensione, al di qua e al di là di ogni estetica: «Non come il sintomo di una “verità”, la mia, quanto piuttosto come una preghiera, quella di cui Aristotele diceva così giustamente che non è “né vera né falsa”».