La crisi dell’esperienza è uno dei concetti che ha caratterizzato le riflessioni sulla vita moderna a partire dal secolo scorso. In molti sostengono che questa crisi abbia raggiunto un punto di non ritorno con l’accelerazione tecnologica avvenuta negli ultimi decenni, che non ha solo creato soggetti multitasking, interconnessi e iper-stimolati da un flusso continuo d’informazioni e d’immagini, ma orizzonti virtuali, che obbligano a ridefinire il concetto e il senso dell’esperienza individuale. Tutto ciò contrasta con quanto sta avvenendo da ormai qualche anno nel mondo dell’arte: musei e gallerie non promettono più semplici opere da vedere e mostre da visitare, ma situazioni, spazi, oggetti da esperire. E con notevole successo. Un successo del tutto commerciale.

Il caso del settantenne artista californiano James Turrell è da questo punto di vista paradigmatico. La sua mostra organizzata di recente dal Guggenheim di New York ha infatti attirato un numero di visitatori senza precedenti nella storia del museo, disposti ad attendere in fila anche per molte ore per accedere all’esperienza offerta da Aten Reign, un’immensa installazione ellittica di luci e colori cangianti concepita per occupare l’intero spazio dell’iconica rotonda del museo. Anche al Los Angeles County Museum of Art (Lacma) di Los Angeles si è verificata una situazione simile: i biglietti per Light Reignfall, un ambiente-opera che fa parte di un’ampia retrospettiva dedicata all’artista, sono esauriti da mesi fino al prossimo aprile.

L’opera che ha generato così tanto interesse è costituta da una sfera del diametro di tre metri, cui si accede uno alla volta sdraiati su un lettino da risonanza magnetica solo dopo aver firmato un documento che spiega come le luci stroboscopiche da cui si verrà bombardati per dodici minuti possono provocare convulsioni, paralisi e persino la morte. L’effetto è psichedelico, ma non straniante quanto i camici bianchi degli addetti del museo, più inquietanti del coniglio che conduce Alice nel suo allucinato mondo di meraviglie.
Turrell, nato a Pasadina nel 1943, è uno dei principali esponenti del movimento «Light and Space», sviluppatosi in California a partire dagli anni sessanta, quando la scena artistica americana era dominata dall’astrattismo geometrico, il minimalismo e l’optical art, ma soprattutto dall’idea di un’arte non oggettuale, come quella proposta dalla performance. La caratteristica principale del lavoro degli artisti di questo movimento – che oltre a Turrell include, tra gli altri, Robert Irwin e Doug Wheeler – è l’attenzione ai fenomeni percettivi, con una particolare enfasi sull’impiego della luce come materiale. La retrospettiva, organizzata dal direttore del Lacma Michael Govan e dalla curatrice Christine Y. Kim, è la più grande finora allestita per celebrare l’opera di Turrell, ma rappresenta solo una frazione minima della sua ricerca in oltre quarant’anni di attività.

I primi esperimenti di Turrell con la luce risalgono infatti al 1966. Afrum (White), ad esempio, una delle sue opere giovanili riproposta al Lacma, è composta da un singolo intenso raggio di luce bianca proiettato sull’angolo di una sala. Il fascio luminoso crea l’illusione di stare di fronte a un cubo tridimensionale, che scompare non appena ci muoviamo di un passo. Nel mondo di Turrell, l’opera d’arte si realizza e manifesta sempre dentro i limiti dello sguardo dello spettatore.
Per elaborare i suoi primi studi sulla percezione della luce, dal 1966 al 1974, l’artista ha approntato uno studio in un ex-hotel di Santa Monica, il Mendota, trasformato in una gigantesca camera oscura. A testimonianza di quel periodo di radicale ricerca del potenziale artistico della luce restano oggi solo gli appunti e i disegni preparatori alla realizzazione dei celebri Mendota Stoppages, proiezioni effimere di luce naturale ottenute oscurando interamente le finestre dello studio e facendo filtrare solo minime quantità di luce a diverse ore del giorno. Smaterializzando completamente l’oggetto artistico, queste opere mettono al centro la percezione dell’osservatore e ridefiniscono i concetti di spazio architettonico, creato non più dalle pareti ma dall’illusione della loro assenza. È il caso di Dark Matter, un ambiente quasi completamente buio in cui possono accedere solo due visitatori alla volta. Al suo interno, tramite il gioco crepuscolare della luce appositamente manipolata, si ha l’illusione di vedere una fluttuante parete grigia al centro della stanza: una superficie osmotica di oscurità e visione.

Un tempo innovative, alcune opere presenti nella mostra, ad esempio la serie degli ologrammi che ripropongono ellissi e trapezi – le figure geometriche più ricorrenti nell’opera dell’artista – danno ora il senso del già visto, del già sperimentato. La colpa non è di Turrell, che resta un pioniere nel suo campo, ma del fatto che ormai i giochi di luce al Led sono diventati una semplice decorazione, parte integrante di aeroporti, alberghi, piazze di provincia, che attraversiamo senza pensare, senza distrarci, senza trarne alcuna nuova esperienza. Le opere che ancora sembrano mantenere una freschezza compositiva prossima alla poesia sono quelle dove la luce assume una componente pittorica, come nel caso di St. Elmo’s Breath, un trittico di proiezioni luminose tra la terra di Siena e il violetto che ha la stessa solennità di un altare medievale o di una tela di Rothko, un artista cui spesso Turrell è stato associato.

Forse consapevole della sempre maggiore difficoltà che incontriamo nel soffermarci sulla cose che ci circondano e sulla nostra capacità di osservare, Turrell – da sempre affascinato dal mito platonico della caverna, mito di luci e di ombre – ha sviluppato una serie di lavori intitolati Skyspaces, spazi celesti. Sono strutture, che a volte ricordano la forma di piccoli mausolei, o costruzioni nuragiche, realizzate con l’unico scopo di incorniciare un frammento di cielo. In queste opere, un’apertura sul soffitto combinata all’ausilio di luci artificiali invita alla pura contemplazione di ciò che ci sovrasta.
La più radicale e colossale di queste opere, presentata a Los Angeles solo grazie a una serie di fotografie, progetti, plastici e video, è rappresentata da un lavoro ancora incompiuto, iniziato a partire dal 1979. Si intitola Roden Crater, il cratere di un vulcano ormai estinto nel deserto dell’Arizona, che Turrell ha lentamente trasformato nel più grande osservatorio celeste mai realizzato. Per un artista che ha fatto dell’immaterialità una delle cifre caratteristiche della propria opera, Roden Crater, tutt’ora in via di espansione e ancora non visitabile dal pubblico, è alquanto faraonico: non solo in virtù delle sue dimensioni ma soprattutto grazie agli interventi architettonici contemplati, che ricordano le scenografie di Guerre Stellari. Un intervento visionario e insieme spaventoso.

Di tutt’altro tenore è il nuovo lavoro creato in occasione della mostra di Los Angeles: titolata Breathing Light, l’opera – promettono gli addetti del museo al visitatore, dispensando nozioni di ottica casalinga – rappresenta un’esperienza unica. Dopo aver atteso per oltre mezz’ora in una coda di persone silenziose e completamente assorbite dallo schermo del proprio telefonino, arrivati di fronte a una scala immacolata che sembra condurre verso un’altra dimensione, vengono fatti indossare, in un lungo rituale tra il poliziesco e l’ospedaliero, dei calzini bianchi. Con il divieto di usare cellulari e macchine fotografiche si entra a piccoli gruppi, per una decina di minuti, in una sala sopraelevata, anch’essa bianca e dagli angoli arrotondati. Al suo interno, si è avvolti da una luce che lentamente cambia colore, secondo uno schema stabilito. E tra il fuxia e l’azzurro, si sta lì impacciati e incerti su quanto stia accadendo, senza poter nemmeno scattare una foto che documenti quella esperienza.