Nel 1971, verso la fine di una delle sue lezioni-concerto, Dal jazz al pop, divenute fortunate opere discografiche, Giorgio Gaslini dichiara che è giunto il momento dell’Europa, «con grandi solisti, ma pochi stili»: forse all’epoca l’osservazione può sembrare giusta, ma, oggi, dopo quasi mezzo secolo, il vecchio continente forse surclassa il Nuovo Mondo, se ci si mette a elencare gli stili – nel senso di correnti, movimenti, scuole, linguaggi, tendenze – che le musiche improvvisate sanno creare in rapporto più o meno dialettico con le sonorità afroamericane. Per anni si discute se il jazz in Europa debba emulare quello statunitense, bianco o nero; e per anni la critica dibatte a lungo sulla presunta originalità del jazz «inventato» a Parigi, Londra, Stoccolma o Milano, in base al grado appunto di vicinanza o distacco dai modelli afroamericani.

Oggi il confronto fra la storia del jazz nordamericano e quella del jazz europeo sul piano degli stili e davvero «sbilanciata» a favore di quest’ultimo numericamente parlando, soprattutto a partire dal secondo Novecento. Si sa che negli Stati Uniti, dal ragtime in poi, questa nuova musica si muove in avanti – per circa un secolo – lungo una decina di coordinate in progress: hot jazz, swing, bebop, dixieland revival, cool, mainstream, hard bop, modale, free, fusion e post-free (oppure un generico «ultime tendenze»). Il jazz dall’America giunge quasi subito in Europa, sfatando il mito negativo (purtroppo ancora persistente) del presunto ritardo nei confronti del sound della Madre Patria; e nell’arco di un decennio il jazz francese riesce addirittura a sviluppare una forma autonoma, benché negli anni Sessanta in diversi paesi emergano differenti stili, in grado di affiancare i modelli afroamericani coevi o precedenti, tanto nella ricerca quanto nella continuità, sia in polemici toni oltranzisti, sia nel pacifico rispetto delle tradizioni più o meno moderne.

Tuttavia per parlare di autentica identità del jazz europeo occorre aspettare per lo meno due avvenimenti storici, così come accade con le metamorfosi del jazz americano che seguono i cambiamenti sociali, economici, culturali, politici (via via l’abolizione della schiavitù, il repulisti di Storyville, la malavita a Kansas City, la Grande Depressione e il New Deal, le lotte per i diritti civili, la fortuna del rock and roll, il Black Power, eccetera). Sul Vecchio Continente, al di là dell’avvento delle dittature che, fra le due guerre, ostacolano l’effetto libertario del jazz medesimo, sono soprattutto la fine del secondo conflitto mondiale e la contestazione sessantottesca a favorire lo sviluppo di un’autentica cultura jazzistica soprattutto nelle nuove democrazie occidentali (e di riflesso anche, clandestinamente, nei paesi d’oltrecortina).

Da un lato infatti con la sconfitta del nazifascismo, tra il giugno 1944 e il maggio 1945, grazie all’apporto delle truppe alleate, l’Europa accoglie il loro bagaglio «American Way Of Life» di cui il jazz negli anni Quaranta-Cinquanta è ancora parte essenziale. Dall’altro invece la cosiddetta «contestazione generale», simboleggiata dal Sessantotto o Maggio parigino, tra il 1967 e il 1970, compie un’autentica rivoluzione in ambito culturale, spazzando via ogni accademismo a favore di idee aperte, fino all’azzeramento delle estetiche tradizionali: in tal senso, in musica, si guarda al free jazz quale proposta da cui elaborare inediti percorsi creativi, tra istanze giovanili, linguaggi underground, provocazioni artistiche, utopie sperimentali, ribellismi feroci.

Il nuovo jazz a Ovest e a Est sarà per circa un decennio «lotta al sistema», ponendo le basi, nell’ennesimo ritorno all’ordine formale dei successivi decenni, per una maggior consapevolezza sulla raggiunta identità del jazz europeo medesimo. Dagli anni Ottanta a oggi è storia (o dopostoria) recente o, per altri versi, un cammino tuttora battutissimo con sempre originalissime soluzioni, come dimostrano i 20 stili qui elencati – in ordine alfabetico – che dal 1935 a oggi connotano la vivace attualità del jazz europeo.

Acid Jazz

L’acid jazz all’inizio degli anni Novanta si pone come dance music nelle discoteche inglesi: sono in particolare alcuni dj a remixare i «classici» della Blue Note (e della Verve e della Impulse!) aggiungendo a sonorità già di per sé vivaci il ritmo martellante della drum machine e di ulteriori effetti elettronici. Da qui si sviluppa un movimento artistico, da molti puristi giudicato superficiale o consumistico o consumista, che, grazie a band e solisti (britannici in particolare), intende recuperare quanto avvenuto poco prima della discomusic a livello sempre di musica da ballo, attingendo a soul, r’n’b, funky. C’è però uno «storico» antecedente, conosciuto e stimato da tutti: l’album Open (1967) di Brian Auger & The Trinity with Julie Driscoll in piena era beat e psichedelica resta fedele al credo hammondista di Jimmy Smith e colleghi.

Americans in Europe

Con questa espressione si designano tutti quei jazzisti statunitensi che, dal dopoguerra ai nostri giorni, soggiornano in alcune grandi città del Vecchio Continente – Parigi è la prima in senso storico, a cui seguono Copenhagen, Amsterdam, Roma, Berlino, Stoccolma, Barcellona, Londra – mutandone la fisionomia dal punto di vista musicale, ovvero incrementando il numero di jazzisti locali e spingendo i giovani a confrontarsi con loro . Il primo degli «Americani in Europe» è il clarinettista creolo Sidney Bechet che, in Francia, porta il dixieland revival a livelli di popolarità incredibile, come mostrano le vendite del singolo e dell’album Petite fleur (1953) avec Claude Luter Et Son Orchestre.

Canterbury School

A Canterbury, cittadina famosa per i medievali racconti di Geoffrey Chaucer, nel 1967 alcuni liceali – futuri Soft Machine – decidono di tentare nuove strade rispetto a quelle tracciate dal rock dei Beatles e dei Rolling Stones: ne nasce una scuola che, grosso modo dal 1968 al 1975, resta un punto di riferimento per la scena alternativa dalle sonorità jazzistiche, con le quali ama subito confrontarsi, guardando soprattutto al neonato jazzrock americano da Bitches Brew di Miles Davis in avanti. In tal senso Third (1970) di Robert Wyatt segna per tutti la svolta.

ECM Style

Nel 1969 Manfred Eicher fonda a Monaco di Baviera le Editions of Contemporary Music – per tutti ECM – con l’intenzione di documentare quanto avviene nel jazz di neo e post avanguardia: ben presto le idee, il rigore e la pignoleria di Eicher arrivano a condizionare la fisionomia della label, sino a farne uno stile a sé: una filosofia acustica, in cui vengono rimosse asperità, rudezze, clownerie, proteste del jazz medesimo a favore di uno stile adamantino, cameristico, levigato dallo swing contenuto (o quasi assente) e da un mood europeissimo (o talvolta classicheggiante), come quando in Officium (1994) Jan Garbarek incontra l’Hilliard Ensemble.

Flamenco-jazz

Dopo un primo disco, Jazz Flamenco (1967), creato «a tavolino» dal critico e produttore tedesco Joacquim E. Berendt, che fa incontrare il sax tenore e il quartetto europeo di taglio hard bop di Pedro Iturralde con la chitarra flamenca di Paco De Lucia, è quest’ultimo a intuire che si può continuare nella ricerca e nella combinazione tra improvvisazioni jazzistiche ed espressività gitane, un po’ come trent’anni prima, a Parigi, dal rapporto fra un critico e cinque musicisti nell’Hot Club de France, scaturisce il jazz manouche che collega altre tradizioni zingare ed europee incrociandole allo swing di moda negli Stati Uniti e poi nel mondo intero.

Frei Muzik

In Germania una «musica libera» – frei muzik, appunto – negli anni Settanta, si distingue per favorire maggiormente le istanze estetico-creative rispetto a quelle sociali o ideologiche del free nero, comunque amatissimo. È soprattutto il disco seminale Globe Unity (1966) di Alex Von Schlippenbach a porsi velocemente come manifesto dell’omonima prima big band fuori dagli schematismi e pronta a confrontarsi dialetticamente con la storia jazzistica.

Holland School

Se negli anni Settanta la lezione del free viene, in molti paesi europei, accettata ed elaborata con stili identitari vicini al jazz spinto (la frei muzik tedesca), all’impegno sociale (la musica totale italiana), al radicalismo sonoro (l’Improvised Music inglese), ad Amsterdam si elabora un gusto dissacrante simbolicamente vicino ai Provos (antesignani sia di hippie che dei contestatori). La «scuola olandese» esemplificata da The European Scene (1976) del Willem Breuker Kollektiv si concentra su una ricerca dove l’elemento visuale, performativo, talvolta quasi cabarettistico risulta centralissimo, accogliendo influenze variegate tra humour, criticità, utopie sociorivoluzionarie.

Improvised Music

Si tratta dell’equivalente britannico della creative music nera (A.A.C.M. di Chicago): non a caso in un primo momento esistono reciproche fruttuose collaborazioni, di cui il doppio album First Duo Concert (1974) con Anthony Braxton e Derek Bailey è la punta estrema di uno stile diffuso nel resto del Nord Europa, ma che in Inghilterra assume caratteri oltranzisti, fin quasi ad arrivare al grado zero del linguaggio musicale. L’Improvised Music, fra tutti gli stili europei, risulta forse il più longevo, in quanto ancor oggi attivo a Londra con un discreto ricambio generazionale.

Indo-jazz

John Coltrane già nei primissimi anni Sessanta accentua l’interesse verso i raga dell’India, introdotti in Occidente e non più esotismo, ma quale vessillo delle culture giovanili dal virtuoso di sitar Ravi Shankar, applauditissimo a Monterey Pop e Woodstock. Tuttavia è Londra il luogo deputato a esperimenti oggi definibili world music: è l’anglogiamaicano Joe Harriott, già inventore al sassofono della free form parallela al free jazz di Ornette Coleman, a fondere in Indo Jazz Suite (1966) due tradizioni in apparenza inconciliabili, in realtà foriere di numerosi altri sviluppi dal beat al prog, dalla psichedelia alla fusion.

Musica totale

Nel 1975 il sunnominato Giorgio Gaslini dà alle stampe un piccolo libro intitolato semplicemente Musica totale, destinato a scuotere o persino rivoluzionare l’ambiente artistico-musicale italiano: il pianista milanese, fin da giovanissimo, nell’immediato dopoguerra, rivendica la libertà di costruire un jazz europeo autonomo, in grado di coniugare il patrimonio ereditario afroamericano con il sapere occidentale in fatto di varietà di linguaggi acustici dotti e popolari, classici e moderni. «Totale» significa collaborazione, interazione, partecipazione sia nei rapporti fra i jazzmen sia nella dialettica con gli ascoltatori: il tutto già in nuce nello splendido Tempo e relazione (1957).

Neo soul

Nel 2006 Back to Black di Amy Winehouse diventa subito album epocale, tra i più venduti e con maggior permanenza nelle classifiche mondiali, proponendo soprattutto uno stile musicale ribattezzato come «nuovo» soul: la cantautrice londinese non si ripeterà più, ma indirettamente contribuirà ad allargare un fenomeno musicale «vintage», basato soprattutto su voci femminili britanniche innamorate della tradizione canora afroamericana, persino in maniera eterogenea, spaziando non solo tra il soul classico alla Aretha Franklyn, ma guardando pure al blues, allo swing, al cool, persino ai crooner maschili.

New Musette

Forse questo stile, a livello di visibilità planetaria, coincide con un unico grande protagonista, il nizzardo Richard Galliano, che con l’album omonimo New Musette (1991), alla fisarmonica, reintroduce, per primo, in chiave fortemente jazzata (e talvolta persino sperimentale), la musica una volta detta valzer musette di moda nella Parigi del primo Novecento e anche in seguito pronta ad accompagnare le canzoni, talvolta con un imprinting jazz. Tuttavia, circa mezzo secolo dopo, arriva Galliano, oltre qualche altro fisarmonicista, a forgiare un nuovo stile molto europeo con un «french touch» assoluto, virtuosisticamente triste e malinconico, gaio e spensierato, come non si ascolta dai tempi dello swing gitan.

Nordic jazz

Si tratta della musica emersa nelle regioni scandinave a partire dagli anni Settanta, con alcuni musicisti isolati spesso facenti capo all’etichetta bavarese ECM, vista anche la presenza degli studios a Oslo, oltre Monaco. Ma è solo dal Nuovo Millennio che si parla di uno stile nordic jazz grazie all’exploit con Good Morning Susie Soho (2000) di E.S.T. (Esbjörn Svensson Trio) che preluderà a un jazz foriero di valori consolidati lanciando però una musica suonata come farebbe un gruppo pop o una rock band.

Nouveau Gitan

Nel 1981 un énfant prodige, Biréli Lagrène, licenzia un album, Route to Django, in cui interpreta, con un’impressionante maturità espressiva, i «classici» del Quintette du Hot Club de France, rifacendosi al tocco chitarristico e al singolare virtuosismo di Django Reinhardt: da quel momento si torna a parlare di swing gitan

o manouche con nuove generazioni di musicisti non solo zigani del vecchio (Francia, Olanda, Norvegia, Ungheria, Italia) e nuovo continente (Canada e Stati Uniti) pronte a rilanciare una cultura delle sette note dalla mitologia prettamente europea: e lo stile, ribattezzato il «nuovo gitano», risulta fin da subito poliedrico, variegato e eterogeneo.

Nu-Jazz

La quintessenza di questo stile consiste nell’incontro o nella fusione tra due grandi esperienze sonore: jazz ed elettronica. Sono ad esempio dj e musicisti, con varie scuole europee (e poi americane) a fare interagire la tecnologia e l’artigianato, le alchimie digitali e le improvvisazioni strumentistiche, inventando un sound da discoteca; e fra i tanti nu-jazz, è forse anche da ritenersi tale quanto espresso da molti correnti scandinave – talvolta genericamente inserite nel citato nordic jazz – quando ad esempio molti jazzisti riscoprono il rock jazz in chiave techno: Khmer (1997) di Nils Petter Molvær su tutti.

Polish Jazz

Polish Jazz è anzitutto il nome di una collana di album iniziata a fine anni Sessanta, in cui viene documentata la ricchissima scena locale, in un periodo di forti sospetti, in tutta l’Est Europa, verso il jazz accusato di propaganda occidentale. La Polonia invece resiste con l’estrema originalità del sound locale: il Polish Jazz resta uno stile volto a riprendere e rimescolare bebop, cool, free, modale, in chiave drammatica, come ben documentato da Astigmatic di Krysztof Komeda, geniale altresì nell’estrarre tensioni musicali lungo un arco espressivo intriso persino di echi classici, a partire dal connazionale Fredric Chopin.

Swedish Cool

Esiste un momento in cui la Svezia contende agli Stati Uniti il primato della modernità jazzistica: nella seconda metà degli anni Quaranta alcuni giovani swinger – il Lars Gullin dei singoli antologizzati in Danny’s Dream (1951-1954) rimane il più famoso – innamorati del bebop di Parker e Gillespie, ne riproducono le strutture, addolcendo la complessità armonica e creando, forse senza rendersene perfettamente conto, quello stile cool che tutti ricordano come inventato negli Stati Uniti da Miles Davis, Lennie Tristano e pochi altri.

Swing Gitan

Grosso modo dal 1934 al 1946 jazz europeo significa quasi esclusivamente swing gitan o stile manouche (in America tradotto con gypsy jazz), messo a punto dai 78 giri del Quintette du Hot Club de France a Parigi, con soli strumenti a corde (tre chitarre, violino, contrabbasso) che sarà la base per gli sviluppi successivi: intrecciando i rispettivi virtuosismi Django Reinhardt di etnia sinti e Stéphane Grappelli di origini italiane creano un sound veloce e ritmato, in grado di fondere mirabilmente le tradizioni popolari europee (il valzer musette, la chanson française, i balli zingari) con l’improvvisazione afroamericana (dal blues feeling agli assolo virtuosistici).

Skiffle

La Gran Bretagna sviluppa propri stili a partire dal secondo dopoguerra, quando le nuove generazioni proletarie, uscite dal trauma bellico e desiderose di cambiar vita, scoprono nell’effervescenza del sound americano (di moda ormai in tutt’Europa) consono tanto a uno svago liberatorio quanto a un riaggiustamento di nuovi linguaggi musicali. Lo stile a Londra e nelle città industriali inglesi, gallesi, scozzesi, si fa chiamare skiffle mescolando disinvoltamente blues, folk, dixieland, gospel, boogie e country: Lonnie Donegan ne è il protagonista indiscusso, a cominciare dall’esordio in Showcase (1956).

Soviet Jazz

È lungo e controverso il rapporto tra jazz e Urss: prima di Stalin esaltato, poi sotto sequestro, quindi ripreso negli anni di guerra, di nuovo reso sterile con Kruscev, quindi rimosso da Breznev (ormai teso a combattere il rock), infine «libero» con Gorbacev, grazie a un manipolo di radicalissimi sperimentatori impegnati a suonare in lontane province onde evitare le turbe a ottusi censori moscoviti: Ancora da capo (1982) del Ganelin Trio è un masterpiece ovunque.

Violin jazz

A parte un paio di virtuosi neri – Eddie South e Stuff Smith – si deve al citato Grappelli la codificazione del violin jazz che resta un «affaire» soprattutto europeo francese, polacco, scandinavo per quanto concerne il moderno e contemporaneo. Forse risulta azzardato parlare di uno stile violin jazz, ma resta il fatto che, ascoltando una pietra miliare come Open Strings (1971) di Jean-Luc Ponty, la creatura di Stradivari simboleggia il meglio e il massimo di una ricerca jazzistica europea che tiene in debito conto il retaggio nobile dal barocco alla dodecafonia sul piano della tecnica, del virtuosismo, del timbro, della composizione.