In una ipotetica galleria degli imprenditori che hanno sviluppato una qualche forma di innovazione, un posto inaspettato, e certamente non previsto dall’economista Joseph Shumpeter che pure alla figura dell’imprenditore ha assegnato un ruolo centrale nell’analisi del capitalismo, va di diritto a Jeremy Rifkin. Lo studioso statunitense non opera nel settore automobilistico, né in quello energetico; e neppure nell’high-tech, nella chimica, nel tessile e nella logistica. È un ibrido tra un consulente e uno studioso, che è riuscito, nella sua oramai trentennale attività, a sviluppare una piccola, agile e redditizia impresa culturale.
Rifkin, infatti, è un imprenditore di se stesso. Scrive libri, tiene conferenze e svolge consulenze per imprese e istituzioni pubbliche attorno ai trend sociali e economici che caratterizzano le società capitaliste. Ha annunciato la «fine del lavoro», irreversibili cambiamenti climatici, la crisi energetica con il conseguente sviluppo dell’energia all’idrogeno, il solare, il fotovoltaico e le biomasse, prospettando, ogni volta, trasformazioni che non sono pensabili se si rimane vincolati ai paradigmi dominanti. Ad ogni libro ha invitato il potere costituito a prendere atto che il mondo così come era stato «formato» era sul ciglio di una rivoluzione che avrebbe cambiato stili di vita, attività economiche, sistemi politici. Poco importava se le sue previsioni e i trendche metteva al centro della sua attività non sempre, anzi quasi sempre non avevano lo sviluppo prospettato. Alle critiche che accompagnano le sue analisi, Rifkin risponde che l’errore riguardava il tempo stabilito affinché si realizzasse la «rivoluzione» annunciata o che non aveva previsto fattori intervenuti successivamente, che non inficiavano le sue previsioni, perché quei fattori avrebbero reso più radicali le trasformazioni ipotizzate.

L’Internet delle cose

La figura di imprenditore che «incarna» più che consegnare la produzione teorica legata a un contingenza senza Storia alla critica roditrice dei topi, continua ad acquisire visibilità, consentendo a Rifkin di essere il gestore di una impresa della conoscenza che fa buoni profitti. I motivi del suo successo sono da ricercare nella indubbia capacità di «annusare» l’aria che tira e di offrire prodotti che, grazie a uno spericolato movimento dialettico, riproducono e contribuiscono, allo stesso tempo, a plasmare lo «spirito del tempo». Di questa capacità è testimone il suo ultimo libro La società a costo marginale zero (Mondadori, pp. 485, euro 22) , che sarà presentato oggi al Festivaletteratura di Mantova (appuntamento alle 14.30 a Piazza Castello).
Il volume può essere considerato come un trattato riassuntivo della sua vita teorica. C’è appunto la fine del lavoro, il ruolo svolto dalle energie rinnovabili nel ridisegnare gli scenari sociali e urbanistici, la società dell’accesso come reinvenzione più che fine della proprietà privata a partire dai commons fisici e «immateriali», l’economia della collaborazione. Un insieme che porta Rifkin ad affermare che i costi per produrre un bene stanno arrivando vicini allo zero. Quella del prossimo futuro sarà una società dominata dall’«Internet delle cose». Come nel web la produzione di contenuti e di software ormai sono da considerare irrisori, dato che vedono all’opera la figura del prosumer, cioè del consumatore che è anche produttore di contenuti visto che è «connesso» sempre alla Rete, anche al di fuori dalla schermo la produzione di energie e di beni tangibili hanno visto una drastica e radicale riduzione grazie all’uso di tecnologie che eliminano gran parte del lavoro umano o perché consentono processi di autoproduzione.

Il movimento dei makers

rifkin
Sul primo aspetto, Rifkin si limita a constatare che la tecnologia informatica non solo sta riducendo su scala planetaria il lavoro operaio e che tale riduzione ha cominciato a coinvolgere anche il «lavoro della conoscenza», della cura, della logistica e dei servizi a causa di software derivanti dall’Intelligenza artificiale. La seconda tendenza, invece, si basa sulla possibilità di produrre energia da soli (fotovoltaico, solare e bio masse) grazie al miglioramento dei componenti (pannelli, batterie per l’accumulo, materiali per la distribuzione dell’energia che riducono la dispersione energetica) e sulle ormai famose stampanti 3d, che hanno fatto ridere non pochi commentatori italiani, quando sono stati evocate maramaldescamente da Beppe Grillo.
Ma al di là delle esternazioni del guitto del populismo postmoderno in salsa italica, il «movimento dei makers» è una realtà che non può essere liquidata con una scrollata di spalle, perché rappresenta la diffusione virale di quell’attitudine altera e conflittuale verso i principi della proprietà intellettuale. E se per i contenuti «immateriali» questo significa rifiuto del copyright e dei brevetti, per i makers produrre in proprio coincide con una critica alla società delle merci che sarebbe sciocco relegare a folklore. Al di là della futuristica idea che sarà possibile sviluppare un dispositivo che, come accade nella serie di Star trek, produca dalla materia inerte tutto ciò che serve a vivere, tra i makers è forte la tensione ad autogestire la produzione e a prospettare soluzioni all’assenza di lavoro, come testimoniano alcune piccole imprese e il più diffuso movimento di recupero delle fabbriche dismesse.
L’aspetto poco convincente del libro di Rifkin non sta nell’elevare i prototipi (le sedie, le mura), costruiti con stampanti 3d o le esperienze di autogestione energetica su base locale, a elementi semplificativi di una sorgente società postcapitalista, dove l’economia di mercato è ridotto a un residuo del passato, mentre fiorisce l’economia della collaborazione. Rifkin la fa, cioè, troppo semplice, dato che prospetta un’evoluzione pacifica che vedrà l’insieme delle norme che regolano la produzione della ricchezza dissolversi come neve al sole.
Dire che la proprietà privata è un retaggio del passato, così come sostenere che il lavoro salariato può essere superato mettendosi in proprio sono desideri scambiati con la realtà. La realtà attuale, tra politiche di austerità, diffusione a macchia d’olio della disoccupazione, guerre feroci combattute per acquisire il controllo delle fonti petrolifere o di materie prime indispensabili per l’industria hightech, parla un altro linguaggio di quello tranquillizzante di Jeremy Rifkin. Un limite, quello di Rifkin, dovuto non solo al fatto che i suoi sono cattivi desideri, ma perché nel volume è rimosso il nodo degli assetti di potere e dei rapporti di forza che continuano ad assegnare alla proprietà privata e al lavoro salariato un potere performativo della realtà stessa. In altri termini, a Rifkin sfugge la dimensione del Politico: non arte della mediazione, come recita la vulgata dominante, ma un agire teso alla trasformazione, appunto, dei rapporti di forza.

Una radicale deregulation

Discorso difficile, certo, ma fin troppo evidente quando nel volume sono affrontati il tema dei commons e della proprietà intellettuale. Sul secondo aspetto, Rifkin ha un punto di forza dalla sua. Auspicare la formazione di un sistema misto dove il regime della proprietà intellettuale convive con la diffusione delle licenze creative commons non è molto distante da quanto sostiene l’organismo dell’Onu sulla «World Intellectual Property». Rifkin tuttavia non fa cenno al fatto che l’industria dei Big data è potuta prosperare grazie proprio a software open source.
Dettagli, forse, ma tutto diventa meno contingente se nel discorso sui commons viene ignorato il fatto che sono prodotti all’interno di un regime salariato. La riappropriazione dei commons non può quindi essere svolta senza la critica a quel regime, che ha una appendice nei sistemi politici. Il rischio con Rifkin è di trovarsi invischiati in una prospettiva di deregulation radicale, dove i commons più che espressione di una cooperazione produttiva collettiva sia l’esito di un individuo che sceglie sì di vivere in società, ma solo perché persegue con ostinazione il proprio benessere individuale. La società a costo marginale zero più che a un regno della libertà sembra avvicinarsi a una distopia dove la miseria del presente è elevata a sistema.