Quasi metà dell’apparente exploit dei nuovi occupati, segnato ad aprile di quest’anno, è stato perduto nel mese di maggio. I dati sull’occupazione pubblicati ieri dall’Istat sono un bagno di realtà per il governo Renzi che non passa giorno senza millantare l’efficacia delle proprie riforme. Rispetto al mese scorso il numero degli occupati è sceso di 63mila unità, mentre è aumentato nel confronto con maggio 2014 (+60mila). L’aumento annuale riguarda esclusivamente le donne, che però secondo gli ultimi dati del Ministero del Lavoro non rientrano tra gli assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti.

È la conferma che la nuova occupazione, oltre a non essere significativa dal punto di vista quantitativo, è caratterizzata da una buona dose di precariato. Quanto al tasso di disoccupazione relativo all’intera popolazione, rispetto ad aprile, non c’è stato alcun miglioramento, mentre su base annuale è sceso di 0.2 punti percentuali. Per i giovani tra i 15 e i 24 anni, il tasso di occupazione e quello di disoccupazione sono entrambi diminuiti dell’1% su base annuale, mentre il tasso di inattività ha registrato un aumento del 2,2%. Sono numeri che permettono di trarre un primo bilancio sul Jobs Act e gli sgravi alle imprese, i provvedimenti che alimentano il grande brusìo sulle riforme e sul loro ipotetico successo. Stando ai fatti, a maggio ci sono appena 10 mila occupati in più rispetto a fine dicembre, quindi i nuovi occupati rappresentano lo 0,3% dei disoccupati italiani (oltre tre milioni di individui). Nel confronto di genere, si nota che questi nuovi occupati riguardano esclusivamente le donne (più 96 mila contro una riduzione di 87 mila occupati uomini). Il numero di disoccupati aumenta di 5 mila unità, trainato anche dal calo del numero di inattivi nello stesso periodo (circa 87 mila). Restringendo l’analisi ai giovani, si nota che gli occupati diminuiscono (-19 mila) nei primi cinque mesi, mentre il numero di disoccupati diminuisce di mille unità.

Nel frattempo sono aumentati anche i giovani inattivi. Il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti non si rassegna all’evidenza e ieri ha dichiarato che siamo di fronte a «una situazione non ancora stabilizzata», ma che tuttavia «restano comunque validi i segnali positivi» relativi alla «maggiore stabilizzazione dei rapporti di lavoro e diminuzione delle ore di cassa integrazione» dei primi mesi dell’anno. Poletti ha fatto male i conti perché a guardare i primi tre mesi dell’anno– escludendo quindi le “destabilizzanti” variazioni tra aprile e maggio- si nota che tra la fine di dicembre 2014 e fine marzo 2015, i nuovi contratti a tempo indeterminato sono stati 76.811 a fronte di un calo del numero di occupati a tempo indeterminato di 79 mila unità. Per ogni nuovo contratto (escluse le trasformazioni) c’è (quasi) un occupato in meno a tempo indeterminato. Per l’ex ministro del lavoro Maurizio Sacconi «è ragionevole supporre che senza una vera ripresa dei consumi interni non si produca una significativa occupazione aggiuntiva».

Dunque uno dei più ferrei sostenitori del Jobs Act ne riconosce adesso l’inefficacia e si scaglia contro le tasse sulla casa- che sono alte, soprattutto distribuite molto iniquamente a sfavore dei ceti popolari- ma intanto nulla dice contro i redditi bassi, soprattutto quelli da lavoro. Nel nostro paese, va ricordato, che il 38% dei lavoratori con contratti precari percepiscono redditi sotto la soglia di povertà relativa, così come il 12% dei lavoratori standard. Un risultato al quale ha collaborato anche Sacconi che insiste nell’usare la delega del Jobs Act sulla semplificazione “incoraggiando la propensione ad assumere deregolando gli oneri burocratici sul lavoro”. In realtà l’Istat ha recapitato un altro messaggio a Renzi: gli effetti del Jobs Act sull’occupazione sono inesistenti con una disoccupazione che resta stabile al 12,4%, mentre quella giovanile resta al 41,5%. Le svalutazione di salari e diritti non garantisce la ripresa. In Italia, come in Grecia.