Renzi ci prova ancora, vuole portare voti al referendum costituzionale del 4 dicembre. Vuole dimostrare che l’aumento di 60 mila disoccupati a settembre, insieme alla crescita di 45 mila occupati (la maggior parte “indipendenti”, cioè partite Iva) e alla diminuzione di 127 mila inattivi, siano dovuti al successo del Jobs Act. E ha rispolverato la storia dell’aumento di più di 655mila posti di lavoro dal febbraio 2014, quando è entrato in carica da presidente del consiglio. Come se la sua presenza fosse l’indice di un cambiamento della traiettoria del sole su un mercato del lavoro stagnante.

Lo dimostrano i dati dell’Istat, a volerli leggere sul serio. Il “crollo” degli inattivi (-508mila su base annua) è dovuto al fatto che hanno cercato lavoro in qualsiasi forma – senza averlo trovato – e oggi risultano “disoccupati”. Lo conferma l’aumento del tasso di disoccupazione a settembre: 11,7%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto ad agosto: siamo sopra i 3 milioni +3,4%, pari a un incremento di 98mila unità in un anno. Non è mancata la patetica celebrazione dell’aumento di 0,1 punti percentuali del tasso di occupazione: il 57,5%, uno dei più bassi dell’Eurozona. Il dato conferma la stagnazione, non l’alba del mondo nuovo. Per il ministro del lavoro Giuliano Poletti è comunque “il livello più basso dal 1977”. Un dato che, evidentemente, non scalfisce la struttura del mercato del lavoro e, anzi, la conferma.

Resta da capire la composizione dei 655 mila occupati vantati da Renzi. Ragioniamo sull’anno, sulla base dell’analisi Istat: l’unica occupazione che cresce è quella di chi ha già un contratto (precario) “riconvertito” in uno nuovo, e ha più di 50 anni: +384mila occupati over 50. Questo significa che l’aumento dell’occupazione (che esiste) non è dato da nuovi posti di lavoro. Chi ieri non lo aveva, oggi continua a non averlo, anche se risulta avere un contratto di qualsiasi genere. Nel frattempo continua il crollo tra i 35-49 anni (-62mila) e tra i 25-34 anni (-88mila), la fascia anagrafica che dovrebbe essere la più “produttiva”. Cresce l’occupazione nella fascia degli under 24: +30mila. E infatti l’Istat registra una lenta diminuzione della disoccupazione dei giovani: al 37,2%. Dato comunque alto che dev’essere comparato con il tasso di occupazione. Quest’ultimo cala dello 0,5% sull’anno. Questo può significare che l’occupazione c’è, ma è precaria, intermittente, di breve o brevissimo periodo.

Da questi numeri è escluso il popolo dei voucher. La maggioranza del milione e 380 mila percettori dei buoni lavoro nel 2015 oggi opera in nero e, solo in parte, viene pagata con i voucher. Le statistiche sull’occupazione difficilmente registrano questi movimenti e, se lo fanno, li collocano in una zona grigia tra il lavoro dipendente e l’inattività.

Ma allora perché il governo si ostina a dimostrare i “successi” del Jobs Act? È uno degli aspetti di quella che il filosofo e giuslavorista francese Alain Supiot ha definito la politica della “mobilitazione totale” della forza lavoro potenziale o occupabile. In questa cornice non conta il lavoro in sé, la sua qualità, la sua durata o produttività. Conta dimostrare con la statistica che una linea politica produce risultati. In questi due anni il governo ha messo in campo un armamentario impressionante: programmi (fallimentari) come “Garanzia Giovani”, l’alluvione dei voucher liberalizzati anche dal Jobs Act, sono alcuni degli esempi per ridimensionare i dati sull’inattività e simulare l’aumento dell’occupazione. Si punta alla mobilitazione di chi cerca lavoro, qualsiasi lavoro, per produrre un “rumore” sui dati dell’occupazione e usarlo per dimostrare la validità di una politica del governo.

Secondo i dati dell’Inps l’aumento della disoccupazione potrebbe essere stata causata dalla cancellazione dell’articolo 18 per i neoassunti con il Jobs Act. Solo da gennaio ad agosto 2016 ha prodotto un aumento del 28% dei licenziamenti «disciplinari» (per giusta causa e giustificato motivo): +28 % mentre, con il taglio degli incentivi, prosegue il calo assunzioni stabili: -33 %. Qualcosa di simile l’ha registrato anche l’Istat: sono calati i lavoratori dipendenti, stabili quelli che hanno un contratto permanente, mentre diminuiscono di 10mila quelli a termine. Sull’anno gli occupati sono +257mila.

L’analisi più realistica l’ha fatta Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil:«Dopo la crescita del 2015, nel 2016, la stagnazione del tasso di occupazione, sostanzialmente fermo (57,5%); l’aumento di coloro (soprattutto donne) che cercano un lavoro (statisticamente disoccupati), sia su agosto che su settembre 2015; la mancata crescita – prevedibile per il lavoro a termine – dell’occupazione dipendente a settembre, a fronte dell’aumento del lavoro autonomo – ha detto – Quest’ultimo dato, già segnalato dalla Uil con l’analisi sull’apertura crescente di partite Iva, deve far riflettere. Sembra, infatti, che una quota di opportunità che il sistema produttivo offre, si fondi sull’espandersi, non sempre con alta qualità del lavoro e delle retribuzioni, di attività a basso costo e ‘fintamentè indipendenti. La politica e il legislatore dovrebbero con attenzione prendere atto di questo fenomeno, la cosiddetta Gig economy e individuare, attraverso un tagliando del Jobs act, soluzioni che evitino l’espandersi di questo fenomeno».

«Continua ad esserci una distonia tra le risorse investite e gli effetti che hanno queste risorse in termini di crescita dell’occupazione. Per questo bisogna fare un Piano straordinario dedicato all’occupazione – sostiene il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso- il dato della disoccupazione è un dato troppo alto che richiede interventi strutturali ed urgenti». «Credo sia colpevole non rendersi conto che il 37% di disoccupazione giovanile è un numero che fa impressione», ha proseguito Camusso, insistendo sulla necessità di «affrontare il nodo della prospettiva dei giovani, di come tra i giovani sono esplosi i voucher».