Le prime banalissime domande appena viste delle foto su una rivista: ma non ha freddo? Non ha paura? Come le salta in mente? Poi le immagini ti catturano e sono suggestive e così strane: bei colori, il lago glaciale non è blu come lo immaginiamo, l’acqua sembra pesante, il corpo della nuotatrice fluttua come gli astronauti nelle capsule senza gravità, il ghiaccio è bianco ma di un bianco personale, ghiaccesco, non caratterizzato dagli standard delle palette di colori dei pittori. È tutto un mondo alla rovescia inimmaginabile, parallelo, definito e unico che nessuno vive né conosce. Tranne lei. Lei che si chiama Johanna Nordblad e detiene il record di prima donna a nuotare 50 metri sotto il ghiaccio vestita solo di muta e maschera. La grafica finlandese, anni fa, quasi perse una gamba in un orribile incidente in bicicletta e la terapia del ghiaccio contribuì a salvarla: così arrivò al misterioso mondo dell’apnea al gelo.

Quanto coraggio comporta la scelta di intraprendere questo desueto sport estremo? Qual è il margine tra la sfida e la gratitudine? Il superamento di sé stessi, la forza di volontà o solamente l’attrazione per un diverso mondo che diviene quasi esclusivo ai suoi occhi, alla sua pelle, alla sua percezione fisica? Un’avventura formidabile vissuta con disinvoltura, una concentrazione di nervi, istinto di sopravvivenza, smania di conoscenza e voglia di vivere: queste le cose che appaiono agli occhi di chi guarda, da fuori, dal calduccio del divano con la copertina sulle ginocchia e il gatto ronfante sopra. Cosa mai si prova ad inserire l’intero scheletro con ciccia annessa in un liquido ammantante della temperatura di quattro sotto zero minimo? Nessuno di noi vuole davvero scoprirlo. Qualcuno forse, un minimo sparuto numero di folli. Johanna è tra questa minoranza tra le minoranze, questa élite di temerari calorosi.
Un triangolo perfetto (l’occhio del Dio Sole?) squarciato tra stratificazioni di ghiaccio. Una oscurità luminosa. Una pinna a semicerchio si introduce cautamente nel liquido (amniotico?). Sotto, tra stalattiti alla rovescia, una sagomina umana di nero vestita, auto elettasi sirena, gattona carponi toccando la superficie statica impenetrabile confine col mondo di sopra. Non è un pesce comune né uno squalo né un balenottero in cerca della madre. È una donna. Folle? Ardimentosa? Alla ricerca di emozioni forti?

Self-confident di sicuro. Perché trovarsi dentro metri cubi di acqua più fredda di un cocktail ghiacciato sotto il sole delle Maldive non è esperienza da tutti, per tutti, mentre lei ride sicura nelle bolle gelate, alla vita una cintura di pesi che la tiene a fondo, una maschera da Diabolik, zigomi labbra e mento all’addiaccio. In apnea nuota per alcuni metri, visibile dal di fuori, sotto lo strato trasparente formato da livelli più sottili di glaciazione. La danza che compie assomiglia al teatro giapponese delle ombre: distinguiamo silhouette di un corpo fluttuante con braccia e mani e gambe in qualcosa di denso come gelatina, come se l’essere sotto zero fornisse all’acqua una consistenza all’apparenza più tangibile, meno eterea, quasi solida. Un corpo umano lì dentro assume, temporaneamente, caratteristiche da supereroe: ha i minuti contati, il countdown è innescato e non esiste nessuno che possa bloccarlo, non possono esistere paura, panico, errori: lì sotto c’è solo Johanna, i suoi polmoni e la sua voglia di mangiare con gli occhi, sentire con la testa, vibrare risuonando come un mantra dentro un silenzio privato e profondo, pacifico e millenario, eterno, disumano, altro. Ed è dentro questo mare (che mare non è) in cui le è dolce naufragare…

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