Impossibile a incasellarsi, fuori da ogni genere, funambolo verbale da cui non si sa mai cosa attendersi, Jonatahan Lethem è uno di quegli scrittori che possono spazientire, ma di fronte ai quali non si può restare indifferenti: e se si entra nella sua lunghezza d’onda, lo si accetta a scatola chiusa. Mentre negli Stati Uniti è appena uscito il suo nuovo romanzo, Gambler’s Anatomy, nelle nostre librerie appare, a un anno e mezzo dall’edizione originale, la raccolta di racconti Alan, un uomo fortunato (traduzione di Andrea Silvestri, Bompiani, pp. 160, euro16,00), una sorta di spiazzante e imprevedibile campionario dei vari modi, temi e stili affrontati da Lethem negli ultimi dieci anni.

Si va, seguendo l’ordine cronologico di stesura, dal racconto che dà il titolo alla raccolta, ambientato a Manhattan, dove si trovano vari punti di contatto con Chronic City, il romanzo cui Lethem al tempo stava lavorando, ad «Aspirante Vegano», la storia che chiude il libro, il cui setting è, invece, il parco acquatico SeaWorld a San Diego, in California, lo stato dove lo scrittore risiede attualmente.
Sono due dei quattro racconti realistici presenti nella raccolta: storie di solitudine, difficoltà a interagire con gli altri, tanto all’aperto, in mezzo alla gente, quanto al chiuso di una stanza, troppo vuota o troppo piena. Ad essi si affiancano cinque storie esplicitamente surreali, caratterizzate ora da sperimentalismi persino azzardati, ora da una prosa stilizzata e rarefatta, in un trionfo dello stop making sense, il niente da capire che la critica legge come apologo, cercando reconditi significati, e di fronte al quale il pubblico può restare interdetto.

Tuttavia, a un occhio attento non sfugge che anche gli stessi racconti realistici virano verso l’assurdo, l’incompreso o l’incomprensibile, creando una tensione sotterranea che percorre l’intera raccolta. Non per caso, Lethem voleva intitolare questa collezione, rifacendosi a un brano dei Buzzcocks, A Different Kind of Tension (Un tipo differente di tensione), a suggerire come la schizofrenia narrativa del volume sia solo un’estrema conferma del fatto che la realtà si presenta costantemente in modo diverso, non sempre – anzi, quasi mai – logico e razionale.

Così in «Alan, un uomo fortunato», metafore di fragilità suggeriscono sentimenti transitori e il trovarsi costantemente sul crinale della solitudine. Se uno dei due protagonisti, un regista teatrale capace di «infiltrazione zelighiana nella cultura della metropoli», è descritto «come un pattinatore sul proprio fiume privato, un nastro ghiacciato che noialtri potevamo appena scorgere attraverso gli alberi», dell’altro si constata che lui e la moglie «assomigliavano sempre più a figure dentro una boccia con la neve, visibili ma non contattabili dal regno umano».

Certo non è un caso se il primo film che il narratore vede insieme al regista è il fantasmatico I racconti della luna pallida d’agosto di Mizoguchi, né stupisce che, in questo che dovrebbe essere uno dei racconti più realistici della collezione, il narratore finisca per avere la «certezza paranoica» di essere coinvolto in una creazione teatrale «a beneficio di un pubblico sconosciuto», mentre il regista fugge dall’Upper East Side, che pure per lui rappresentava «l’ultimo scampolo rimasto della vera Manhattan», per paura di «trasformarla in una scena teatrale», una sorta di palcoscenico in cui trattare gli altri «come figure in un teatro delle ombre».

In «Aspirante Vegano», le orche marine tanto amate dai bambini sono viste dal protagonista, un padre in crisi che sta cercando di smettere gli antidepressivi, come «panda rigettati da Albert Speer», mentre lo spettacolo dal beffardo titolo «Qui comandano gli animali», per lui è addirittura «un classico esempio della tecnica della Grande Bugia di Hitler»: assistervi significa «essere complici di un incubo noto al mondo intero». L’unico modo per affrontare un mondo in cui si sente «impotente come una pallina che sfrecciava contro il vetro di un flipper» è crearsi un nome segreto, noto a lui solo, «Aspirante Vegano», appunto, «vaga promessa di una vita sublime, appena al di fuori della sua portata», esorcismo di una quotidianità tanto banalmente tragica da poter essere riassunta in una icastica formulazione: «Vita familiare, un cataclisma di solitudini».
Mostrando notevole autoironia, Lethem irride questo suo gusto dell’espressione perfetta nel «Re delle Frasi», dove prende in giro tanto i propri inizi di giovane autore affascinato dal suono delle parole e dai titoli a effetto, quanto il maturo se stesso, capace di ricamare arazzi verbali ineguagliabili ma, secondo i suoi detrattori, a volte gratuiti.
Certo, nelle storie più sperimentali della raccolta, a tratti le parole sembrano scorrere in libertà, i registri si giustappongono, si intrecciano e si accavallano, creando una sensazione di stordimento in chi legge. È una scrittura che non chiede tanto di essere compresa, quanto goduta, assaporata per il piacere dell’inatteso, della sorpresa e, perché no, della bizzarria. Possiamo trovarci così di fronte a una favola inquietante raccontata a frammenti e scossoni, quasi si trattasse di appunti per una storia da sviluppare («Viaggiatore a casa», un esercizio di stile giocato sull’assoluto straniamento tra forma e contenuto) o a un apologo kafkiano, «Operazione en plein-air», che riporta alla mente le storie di Lethem presenti in Kafka Americana, un bel volume di racconti pubblicati con Carter Scholz nel 2001 e purtroppo mai tradotti in italiano. Ci sono poi un cartoon narrativo, con personaggi ispirati ai fumetti americani del primo Novecento, in cui si mescolano pastiche di racconti di viaggio ottocenteschi, giochi linguistici e incursioni postmoderne degli eroi di carta al di là della cornice delle loro vignette e, infine, un racconto che, simulando un blog, immaginato come un luogo fisico, va letto a rovescio, ovvero a partire dalla fine, dal primo post, che sta in fondo alla storia.

Deve essere costato un grande sforzo ad Andrea Silvestri rendere la lingua pirotecnica e le strutture variegate di Lethem. Purtroppo, in italiano, certe immagini risultano un po’ annacquate e, a volte, qualche riferimento si perde: il richiamo al Bob Dylan di «My Back Pages», per esempio, si smarrisce traducendo «Their Back Pages» con «Le pagine del loro passato». Quando, invece, come accade per certi nomi grotteschi, alla Dickens, si preferisce mantenere l’originale, sono le arguzie di Lethem a farne le spese: così non è possibile comprendere che «Dingbat», usato da Lethem come cognome per una famiglia dei cartoon, è un termine inglese per indicare tanto una persona stramba quanto un marchio di riempimento tipografico (entrambe connotazioni non secondarie per personaggi che escono da un fumetto); e si indebolisce un po’ la portata comica del cacciatore Junebug non traducendone il nome, Poacher, che letteralmente significa «bracconiere». Ma, forse, neanche il Re dei Traduttori riuscirebbe a rendere tutta la magia del Re delle Frasi.