Per molti è l’autentica vera promessa del jazz soul. Non giovanissimo – ha trentotto anni – figlio di un sassofonista jazz panamense e di madre americana con ascendenze irlandesi, José James ha fin qui realizzato cinque album e un sesto Love in A Time of Madness è in arrivo: verrà pubblicato con il nuovo anno il 24 febbraio, il terzo per la Blue Note Records. Un disco dalle atmosfere decisamente r’n’b oriented e che lo ripropone a due anni di distanza da uno stupefacente tributo a Billie Holiday, un’esplorazione con molti riferimenti autobiografici sulle relazioni amorose e i luoghi dove esse si svolgono. Decisamente più pop oriented del passato – ma i suoni sono curatissimi e mai leccati – le canzoni vivono anche sulla grande capacità interpretativa di James che a fronte di una voce baritonale, riesce comunque a toccare note altissime e virare al contempo verso un falsetto lancinante.

Tanto studio, lunghe trasferte a Londra, James preferisce ora non definirsi semplicemente un «jazz singer» – nonostante le immersioni nel genere e l’apprendimento della tecnica dai maestri. La sua musica oggi ha più di un riferimento proveniente dal mondo dell’hip hop, come ha dimostrato nelle due date italiane live lo scorso novembre a Milano e Roma. In coppia con Nate Smith alla batteria, si è proposto per voce, chitarra e ableton, in un’ampia selezione dei nuovi pezzi accanto a materiali del passato.

«Ma io in realtà – ha spiegato tempo fa nel corso di un’intervista – sono arrivato al jazz ascoltando hip-hop. Tutti gli artisti che ammiravo nel corso degli anni ’90 come Q-Tip e Ali Shaheed Muhammad e tutti i produttori di tendenza, amavano il jazz e la sua complessità. All’epoca non conoscevo i grandi maestri del genere, ma mi intrigavano quelle atmosfere». L’importanza dell’hip hop nella cultura nera non è solo dal punto di vista musicale, ma anche da quello artistico.

«Ogni generazione – sottolinea James – ha la sua voce e io sono stato abbastanza fortunato a trovarmi nel pieno di quella scena. Sono nato nel 1978 e ho potuto godermi tutta l’era classica dell’hip hop. È stato realmente eccitante perché in quei dischi potevi ascoltare ogni stile, ogni tipo di influenza. Un po’ il lavoro, per intenderci, che sta facendo in questi anni Robert Glasper. Ecco, io penso che la forza del jazz derivi dal fatto che è sempre stato capace di assorbire il meglio dei suoni che provenivano da tutto il modo. Tu puoi rapportarti a ogni periodo dagli anni ’30 in poi e ti accorgerai che è come una assimilazione di altre culture. È la bellezza del sound di gente come John Coltrane».