Il 20 settembre del 1928 James Joyce scrive a una sua mecenate: «Il povero Italo Svevo è morto giovedì scorso in un incidente automobilistico. In qualche modo quando si tratta di ebrei sospetto sempre un suicidio… Ne sono rimasto molto addolorato ma penso che i suoi ultimi cinque o sei anni siano stati felici». Parole che rispondono idealmente ai dubbi sollevati da Svevo stesso qualche mese prima nel suo Profilo autobiografico: «Lo Svevo seguiva con simpatia l’inaudito successo del Joyce, ma chissà se l’artista tanto differente da lui avrebbe trovato nel proprio cuore un po’ di simpatia per il confratello meno fortunato?»

SAPPIAMO ORA assai bene quanto l’artista più famoso non solo avesse a cuore il suo amico meno blasonato, ma anche quale fondamentale ruolo giocò nel diffonderne l’opera in quegli anni difficili. Joyce non si limitò a insegnare l’inglese a Joyce o a presentarne i romanzi a critici influenti. Egli ne rese immortale persino la moglie, Livia Veneziani, regalando il suo nome a un personaggio immortale del Finnegans Wake: Anna Livia Plurabelle; e questo dopo aver, in passato, modellato il personaggio di Leopold Bloom proprio sui caratteri di Ettore Schmitz.
Del rapporto tra Svevo e Joyce ci parla in maniera informata e godibilissima il bel libro di Stanley Price, James Joyce and Italo Svevo (Somerville Press, pp. 248, euro 18), entrando nel vivo non solo di un’amicizia letteraria, ma nel percorso di due vite parallele; come se ognuno idealmente vivesse, o volesse vivere la vita dell’altro. Le somiglianze biografiche sono scioccanti. Entrambi figli di padri economicamente poco avveduti, entrambi in gioventù addetti alla corrispondenza in banche austriache (Joyce a Roma, Svevo a Trieste), entrambi a lungo affiancati da fratelli che conservavano il loro mito e ne trascrivevano le gesta, entrambi autori «pubblicati» prima dei vent’anni; e infine, entrambi avversi alla religione.

MA FERMARSI alle affinità è riduttivo, perché nel caso della grande arte, ogni cosa è anche il suo opposto. A tenerli distanti vi era l’autostima, altissima nel caso dell’irlandese, bassissima in quello del triestino; e poi l’atteggiamento nei confronti della psicanalisi. Svevo ne era affascinato, Joyce la considerava soltanto fumo negli occhi. E infine, la passione per il fumo che ebbe Svevo fu pari soltanto all’amore che Joyce provò per l’alcool. Ma quel che allontanandoli più li avvicina, ovvero, quel che nella vita dell’uno diviene la fiction dell’altro, è l’atteggiamento nei confronti della morte. Svevo temeva d’esser sepolto vivo, e nel testamento del 1927 scrive: «Mi raccomando: puntura al cuore». Parole che ricordano macabre riflessioni di Bloom nel sesto episodio dell’Ulisse quando al cimitero osserva dei becchini lanciare pesanti zolle su una bara «E se fosse stato vivo tutto il tempo? Ops! Perbacco, sarebbe orribile! No, no: è morto, ovviamente. Ovviamente è morto. È morto lunedì. Dovrebbero avere una qualche legge per fargli trafiggere il cuore ed esserne certi».

UNICO ERRORE, allora, ma curiosamente molto rivelatore in questo libro affascinante, è che l’ironica ma serissima raccomandazione del testamento Svevo di cui sopra, in traduzione diviene: «Please: pierce my heart», ovvero: «per favore: trafiggetemi il cuore». Joyce avrebbe sorriso al pensiero di quanto quest’immagine sappia adattarsi ai sogni reconditi e repressi di Leopold Bloom, il personaggio tramite cui Italo Svevo vivrà in eterno.