Nell’introduzione a Senses of the Subject (New York, Fordham University Press, pp. 217) – una raccolta di saggi pubblicati tra il 1993 e il 2012 – Judith Butler chiarisce che si tratta dei suoi lavori più filosofici e meno noti, che non hanno a che fare direttamente col femminismo e i gender studies se non in quanto sviluppano una critica dell’individualismo sovrano a partire dalla «dimensione relazionale dell’essere incarnato». In un itinerario filosofico che va da Cartesio a Fanon passando per Spinoza, Hegel, Merleau-Ponty, Kierkegaard, Irigaray e Sartre, Butler specifica, sviluppa e complica il nesso foucaultiano tra assoggettamento e soggettivazione a partire dalla centralità riconosciuta al corpo. Contro l’idea di un «io» fondato su se stesso, il corpo indica l’esistenza di una «matrice relazionale» che precede e suscita l’emergenza del soggetto e diventa il presupposto per pensare un nuovo universalismo, una «norma sostitutiva» per una soggettivazione prodotta al di là delle identità che si inscrivono sui corpi, in primo luogo al di là del genere. La critica dell’individualismo sovrano diventa possibile a partire da un corpo privo di determinazione sessuale, portatore di un universalismo post-umanista in quanto ridotto alla propria dimensione sensibile, alla propria vulnerabilità e alla propria dipendenza. Così, se il nesso tra questi saggi e la proposta etica e politica sviluppata da Butler nell’ambito dei gender studies può essere tracciato facilmente, la sua analisi finisce per prendere congedo dal femminismo come limite alla possibilità di pensare l’universalismo a venire.

Una retorica a fin di bene

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Anche se riconosce che la relazione tra le norme e il soggetto si articola storicamente, Butler non propone un’indagine storica, ma una riflessione filosofica sulla possibilità di «dare conto» della formazione del soggetto. In questa riflessione, è lo statuto stesso della filosofia a essere chiamato in causa, ovvero la pretesa di una conoscenza piena, trasparente e sistematica. Ciò spiega la scelta di uno stile argomentativo che ricorre agli strumenti della retorica per dare conto della relazione che suscita il soggetto: una relazione «chiasmica», nella quale l’«essere agito» e l’«agire» hanno luogo simultaneamente e non conducono a un’identità tra le parti. Proprio la simultaneità di questa formazione e trasformazione apre spazi possibili di libertà: l’«io» non è pensabile senza le norme che lo suscitano. Allo stesso tempo, esse non lo determinano in modo definitivo: le nostre azioni diventano occasioni attraverso le quali il modo in cui siamo agiti si trasforma (o non si trasforma) nella nostra azione etica.

Il corpo è quindi il luogo di questa relazione aperta e paradossale, che non può essere concettualizzata ma solo espressa retoricamente. I sensi sono all’origine dell’attività cognitiva non in quanto fonte della conoscenza, ma come facoltà inaugurate dal «tocco» di un’«esteriorità» che precede l’io e che, perciò, è tanto la condizione quanto il limite del pensiero. Alla rinuncia all’autosufficienza del soggetto corrisponde l’emergenza di una filosofia consapevole dei propri limiti, un gusto del paradosso che si sostituisce a quello per la contraddizione, considerata lo strumento che sostiene l’ambizione totalizzante della dialettica.

Anche se non può essere padroneggiato dal pensiero, ciò che sta fuori e prima dell’io può essere trasformato, perché l’ordine «infrastrutturale» di istituzioni, discorsi, ambiente e tecnologie in cui il soggetto emerge è tanto storicamente contingente, quanto coinvolto nella «matrice relazionale» che suscita il soggetto e la sua agency. Così, persino nella violenza anticoloniale è possibile scorgere una possibilità etica che non è già contenuta nelle condizioni che l’hanno suscitata. Mentre fa propria e pratica la violenza del colonizzatore, il colonizzato mira a trasformare le strutture dell’oppressione coloniale e compie un gesto di «autocreazione». Rischiare la morte usando la violenza è un gesto compiuto in nome della vita e dell’uomo a venire.

In cerca di riconoscimento

Il problema di Butler non è però di pensare come il colonizzato si costituisca come soggetto autonomo nella sovversione violenta del rapporto di oppressione, ma di indicare la strada per superare la violenza stessa grazie all’idea di «umano» incarnata nel corpo. Questo diventa tanto la condizione per svelare il carico di oppressione dell’umanesimo liberale, quanto il luogo di un’invocazione carica di futuro. Con una libera interpretazione delle parole di Fanon – «oh corpo, fai sempre di me un uomo che domanda!» – Butler indica questa possibilità non ancora realizzata, l’apertura verso il reciproco riconoscimento della necessità fisica e della vulnerabilità che rendono ognuno dipendente da ciascuno, un riconoscimento che permetterebbe di accordare a ogni coscienza un insieme di possibilità infinite al di là di ogni identità nazionale, razziale, di genere.

La possibilità di trasformazione dell’esistente non è l’esito necessario di un insieme di contraddizioni immanenti che possono essere afferrate dialetticamente. Qui sta il senso della critica di Kierkegaard a Hegel su cui Butler si sofferma: l’«esteriorità» non consiste in un ordine sociale e dunque storico che determina il soggetto e di cui il soggetto può appropriarsi attraverso il sapere, ma in ciò che lo trascende, un «infinito» che vive nel corpo in quanto lo costituisce nella sua finitezza, che non può essere conosciuto ma solo esperito attraverso la fede.

Vale a dire, per Butler, che proprio perché il mondo sociale è coinvolto nella relazione che suscita il soggetto non può essere mai colto una volta per tutte nel pensiero. Esso è contingente, ovvero è solo una condizione tra molte altre possibili che agisce ed è agita dai soggetti in modo altrettanto contingente. Il significato etico del corpo consiste nel suo essere l’espressione finita di un infinito insieme di possibilità. Il riconoscimento della sua costitutiva dipendenza diventa così la base di un nuovo universalismo.

L’apriori della norma

Alla luce di questa ambizione etica è possibile comprendere le ragioni – persino la necessità – di un congedo dal femminismo, almeno se con quest’ultimo si intende la possibilità di una critica all’universalismo che proceda dalla politicizzazione della differenza sessuale. Quest’ultima è al centro della proposta etica di Luce Irigaray e della sua critica alla logica «fallologocentrica» in virtù della quale il soggetto (maschile) può porre se stesso come autosufficiente e universale solo negando la sua dipendenza dall’«altro», ovvero dal corpo materno. Il limite di questa critica consiste, per Butler, nel non riconoscere che la differenza tra il «maschile» e il «materno» è essa stessa l’effetto di una norma che precede la formazione dei soggetti. La relazione tra i corpi non si dà come opposizione tra maschile e femminile, ma come esposizione che produce un movimento mutualmente costitutivo, le cui possibilità dovrebbero essere infinite. La pretesa di dare voce alla differenza sessuale, di conseguenza, non farebbe che negare questa infinita proliferazione di possibilità.

La critica di Butler a Irigaray, dunque, procede sia sul piano epistemologico sia su quello etico. Sul piano epistemologico, viene messa sotto accusa la teoria psicoanalitica, che interpreta la soggettivazione maschile come negazione della relazione con la madre e non mette in questione la norma eterosessuale che consente o non consente ad alcuni corpi di diventare «materni». Sul piano etico, la proposta di Irigaray si rivelerebbe tutta interna all’orizzonte che pretende di contestare, perché riproduce il binarismo sessuale che alimenta la logica autoreferenziale dell’universalismo «fallologocentrico». Così, se la critica di Irigaray parte dal corpo sessuato per affermare una differenza che è tanto essenziale quanto nascosta dall’universale e perciò ne costituisce l’«interno dissenso», la critica di Butler parte dal corpo come luogo di una dipendenza genericamente umana, che in quanto tale è essa stessa universale. Là dove il corpo acquisisce centralità etica, la differenza sessuale dovrebbe tacere.

L’«umano» che sta alla base di questa prospettiva etica è l’«aspirazione» che per Butler può diventare la norma che innesca la formazione del soggetto. Il riconoscimento dell’essere incarnati, dunque dipendenti, deve comportare l’assegnazione a ciascuno di ciò che può soddisfare questa dipendenza: nutrimento, riparo, protezione della vita e della libertà, migliori condizioni di lavoro, partecipazione politica, tutto ciò di cui un essere umano ha bisogno per emergere e sostenersi. La differenza fondamentale tra questo universalismo e quello liberale riposa interamente sulla sostituzione di una concezione autosufficiente dell’«io» con una incarnata e dunque relazionale.

Nel passaggio da un universalismo all’altro ciò che resta intatta sembra essere la fiducia nello Stato come istituzione che, una volta sganciata dalle determinazioni identitarie – nazionali, razziali, di genere – che escludono alcuni dal riconoscimento, può farsi carico della piena soddisfazione delle necessità di ciascuno.

Ambizione universalista

Nel momento in cui è ispirata dall’ideale futuro al quale ambisce, l’analisi di Butler chiude inavvertitamente la possibilità di pensare l’insieme dei rapporti di potere che impediscono, nel presente, l’affermazione di quell’ideale. La sua ambizione universalista è davvero incompatibile con quella femminista, se con questa si intende la pratica di una politica di parte, la possibilità di far valere una differenza specifica – l’essere incarnate in un corpo di donna – per portare alla luce e trasformare la configurazione storica di rapporti di potere che nel presente posizionano e conferiscono senso ai corpi.

Con il femminismo, l’universalismo di Butler prende congedo da ogni politica di parte. Non c’è alcuna possibilità di riferirsi a un «noi» che avanza la pretesa di conoscere il mondo per trasformarlo a partire dalla propria parzialità. La possibilità di un’azione politica diventa occasionale: i soggetti incarnati possono sperare di trasformare l’esistente in virtù di un «misconoscimento» o di un fraintendimento come quello che ha luogo nella performance descritta in Gender Trouble, per cui la dissonanza tra la norma che definisce i ruoli e il corpo da cui viene messa in scena produce una trasformazione della norma stessa, che accade anche al di qua della coscienza del soggetto che la pratica.

Una volta destituito il soggetto sovrano, l’universalismo post-umanista di Butler ci lascia in sorte una proliferazione di «io» dipendenti ed equivalenti, occasionali agenti di trasformazione la cui umanità, intelligibilità, vita dipendono dal riconoscimento di istituzioni provvisoriamente benevole. A riempire lo spazio tra il presente e questo universalismo a venire sembra esserci solo il gesto intellettuale di Butler, che in questo modo – certo paradossalmente – assegna alla filosofia l’autosufficienza che pretendeva di negarle.