«Se, tra le cose che ho scritto, qualcuna è servita per mostrare l’altro lato delle cose ai miei lettori e ai miei amici, è facile intuire che ciò costituirebbe la più grande ricompensa cui possa ambire. Personalmente continuo ad avvertire la presenza di qualcosa che si trova dall’altra parte delle cose, per questo non smetterò mai di cercare». Questa ipotesi augurale, in pronuncia modesta, formulava Julio Cortázar in un’intervista televisiva del 1977. Ora, ad anni di distanza, di fronte al vasto corpo della sua opera, non si può che convenire: ha davvero guadagnato la ricompensa cui ambiva. Scrivere è stato per Cortázar un lavoro di ricerca e di apertura – «aprire la porta per andare a giocare», dice una canzone infantile che amava citare –, un lavoro sempre sorretto dall’inclinazione istintiva a guardare dietro le convinzioni correnti, sotto le norme dell’abitudine: «e il pavimento, questa certezza dei nostri passi, che cosa nasconde sotto il parquet incerato?», chiede il tal Lucas della raccolta di racconti che gli è intitolata.
Di questa domanda, nell’universo cortazariano, più che il risvolto dell’inquietudine, dello sgomento che potrebbe far vacillare il nostro equilibrio, conta la messa in questione pura. Conta la domanda sull’oltre, su ciò che c’è al di là, nell’impressione ineliminabile che sia parte costitutiva del nostro qui e ora, della nostra storia. La prima vocazione di Cortázar, la più genuina e foriera di conseguenze, è il voler mostrare «l’altro lato delle cose», con tutte le implicazioni che comporta: la presenza del fantastico nel reale, l’humour sorprendente, le letture inconvenzionali dei fatti, il rifiuto di accettare le cose così come appaiono o sono, la crudezza di situazioni politiche durissime e occultate d’improvviso rivelata: luminosa e agghiacciante.
L’altro lato delle cose è il titolo dato all’intervista televisiva del 1977 edita ora in Italia per l’ottima cura di Tommaso Menegazzi (Mimesis, pp. 89, euro 10,00), una delle pubblicazioni che in questi mesi celebrano il centenario dello scrittore argentino, nato a Bruxelles – per caso – il 26 agosto 1914 e morto nel 1984 a Parigi dove si era auto-esiliato quando Peron aveva preso il potere, all’inizio degli anni Cinquanta. Proprio quella lontana intervista, generosa e compatta, ben si offre come viatico a una rilettura delle opere di Cortázar, per i dati biografici esposti in stretta connessione con la sua scrittura stante quel legame tra letteratura e vita che nella sua esperienza ha più volte definito indissolubile: «fra vivere e scrivere non ho mai ammesso una chiara differenza».

La parabola di una vita
La rievocazione muove da suggestioni di forme e colori, strane piastrelle policrome, reminiscenze del Parc Güell conosciuto nella primissima infanzia, radice intima della sua ammirazione per Gaudì. Ricorda dove fu bambino e adolescente: Bánfield, un «sobborgo estremo» di Buenos Aires, «con strade non asfaltate» e lattai che portavano il latte a cavallo, illuminazione tanto scarsa da favorire «l’amore e la delinquenza in proporzioni più o meno uguali». Accenna all’abbandono del padre e alle difficoltà economiche, agli studi e agli anni d’insegnamento nelle scuole secondarie in asfittiche cittadine di provincia e nell’Università di Cuyo, che era sorta da poco, era povera e «pagava degli stipendi da fame» ma non badava che i suoi docenti fossero laureati. Procede con la tendenza a una vita solitaria, costellata di pochi amici fraterni, e con le precocissime prove di scrittura, il romanzo «lacrimoso» scritto a nove anni. Poi la pubblicazione sotto pseudonimo, nel 1938, di una raccolta di sonetti «con spiccata tendenza simbolista», Presencia; e la sua disapprovazione per quegli scrittori smaniosi che stampano ancora immaturi, che sono sempre disperatamente alla ricerca di un editore, e la sua opposta, anticommerciale scelta di pubblicare con cautela, senza fretta. Scelta con la quale non stride il confessato rimpianto per la mancata edizione, dovuta a pregiudizi letterari più che politici, di un presago romanzo del 1950 ambientato e dedicato a Buenos Aires sull’orlo della dittatura, L’esame, apparso postumo in Spagna nel 1986 e da noi lo scorso anno (traduzione di Paola Tomasinelli, Voland, 2013).
Particolarmente interessanti sono le osservazioni interpretative e critiche che Cortázar dedica alle sue opere, come la lettura di Los reyes, una sorta di poema (da noi forse poco noto) che rivisita Teseo e il Minotauro, interpretati dall’autore il primo come «perfetto fascista» (non l’antico intrepido eroe ma il garante dell’ordine), e il secondo come la «figura del poeta, dell’uomo libero, diverso, che rappresenta il tipo di uomo che la società, ovvero, il sistema, cerca di rinchiudere immediatamente, a volte in cliniche psichiatriche, altre in labirinti, come in questo caso». In barba al mito, il Minotauro di Cortázar è un eccentrico essere giocoso che non fa alcun male ai suoi prigionieri.
Questo centenario sembra essere l’occasione per offrire al lettore un bel regesto delle riflessioni metanarrative di Cortázar: in libreria non è arrivata solo questa intervista, ma anche il volume delle sue Lezioni di letteratura tenute a Berkeley nel 1980 (prefazione di Ernesto Franco, prologo di Carles Álvarez Garriga, traduzione di Irene Buonafalce, Einaudi, pp. 229, euro 29,00), anch’esso pieno della schietta comunicatività di Cortázar: «libro non scritto ma parlato, magari in jam session, con sottintesa quell’idea di improvvisazione tanto cara al Cortázar musicofilo jazzista», per dirla con Ernesto Franco, che come logica conseguenza invita non tanto a leggere il libro quanto ad ascoltarlo.
Passato appena qualche anno dall’intervista televisiva, mutato l’uditorio e l’architettura delle conversazioni, i nuclei degli argomenti affrontati rimangono gli stessi ma la disamina, come è naturale, si estende e si approfondisce e slitta verso nodi teorici. A partire dalla prima lezione che con notevole limpidità autocritica presenta agli studenti del corso le tre fasi che ha attraversato nel suo cammino di scrittore: estetica, metafisica, storica. Ovvero una fase giovanile signoreggiata da preoccupazioni di tipo poetico-letterario, dal desiderio di «scrivere con lo sguardo fisso a volte su modelli illustri, altre su un ideale di perfezione stilistica molto raffinata»; una fase mediana di inchiesta inaugurata dalle insoddisfazioni che il Johnny Carter del racconto lungo Il persecutore già esprimeva, «un’autoricerca lenta, difficile», fatta di domande esistenziali piene di angoscia su temi psicologici e ontologici, compiuta in due romanzi, Il viaggio premio e Rayuela, con il suo protagonista Horacio Oliveira che s’interroga senza posa e mette in discussione tutto, regole e comportamenti. E poi, a partire dall’esperienza cubana tra il 1959 e il 1961, la fase conclusiva, quella ancora in essere mentre parlava agli studenti: il superamento dell’individualismo, della concentrazione sulla felicità/infelicità di un singolo. Per allargare lo sguardo ai popoli e alla loro storia «bisognava superare un guado: vedere il prossimo non solo come l’individuo o gli individui che uno conosce, bensì vederlo come società intere, popoli, civiltà, insiemi umani».
Queste lezioni confermano quanta naturalezza avesse in dote Cortázar: per ricostruire il suo percorso di scrittore usa lo stesso spontaneo passo con cui fa entrare – ma sarebbe meglio dire svela – il fantastico, la realtà del fantastico, nei suoi racconti, e le tre fasi, ancorché distinguibili, fluidamente e biograficamente sfumano una nell’altra. E tutto si tiene – a guardare le cose d’improvviso e da lontano – anche l’illogicità apparente, e le incongruenze e le fratture del reale. Basta non perdere di vista le suggestioni e i dati, basta raccogliere quelli giusti, significativi, e dotarli magari di un intuitivo accrescimento di senso. Sì che, una notte, come d’improvviso, i materiali eterogenei raccolti e attaccati «distrattamente» sullo stipite di una libreria nella sua casa di Parigi, possono diventare figura unica e farsi leggere legati tutti da un filo rosso, da una linea che «proseguiva, dall’alto fino a terra, sinuosamente, senza una sola interruzione».
Questo modo di interpretare la realtà, di farsene abitare è perfettamente congruente ai suoi tentativi – tra i più convincenti, sia detto – di distinguere teoricamente e praticamente tra racconto e romanzo: il racconto è «una sfera», un equilibrio perfetto, teso e compiuto, un «ordine chiuso»; il romanzo è un «poliedro», una struttura vasta, un «gioco aperto che lascia entrare tutto». Il racconto è «la fotografia», il romanzo «il cinema». O, in termini più letterari, il romanzo è «quella grande lotta che lo scrittore ingaggia con se stesso perché vi è racchiuso tutto un mondo, tutto un universo in cui si dibattono i giochi capitali del destino umano».
Oltre ai romanzi che già tempo sono reperibili, riappaiono ora, nella Biblioteca dei Tascabili Einaudi, i Racconti, (a cura di Ernesto Franco, traduzioni di Stefania Fabri, Ernesto Franco, Cesare Greppi, Vittoria Martinetto, Flaviarosa Nicoletti Rossini, Cecilia Rizzotti, Cesco Vian, pp. 1282, euro 28,00), a vent’anni dall’uscita nella «Biblioteca della Pléiade», arricchiti da Il movente e Torito che avevano visto la luce solo nella prima edizione integrale di Fine del gioco (Einaudi 2003).
L’arco descritto da Casa occupata, che apre l’aurorale Bestiario, fino agli indispensabili materiali delle Appendici, invera le considerazioni, in special modo se si pongono in dialettica i due solidi: le «sfere» con i «poliedri», e tutti e due con le Lezioni in cui legge e commenta le sue pagine di narrativa: le visioni da incubo conseguenza di un grave incidente in moto da cui è nato il racconto La notte supina, la fatalità che irrompe nel quotidiano nell’Idolo delle Cicladi, l’anarchia e l’umorismo dei verdi amichevoli cronopios contro la grigia normatività dei famas, la storicità dei due racconti che non poté pubblicare in Argentina, Apocalissi di Solentiname, con la fantastica apparizione di diapositive che realisticamente documentavano massacri, e Seconda volta, scritto quando iniziavano le «forme più sinistre della repressione, le sparizioni».

Gli occhi sulla nuca

Ricco di pubblicazioni, questo centenario induce a riflettere su molte cose: «idea positiva» dell’esilio, diffidenza per i puri giochi intellettualistici in tempi di catastrofe (addirittura per La disparition di Perec) e diffidenza per una letteratura solo impegnata, costanza nell’uso della lingua spagnola (già una forma di lotta), e singolari vie d’accesso al reale e alla storia: «stato di distrazione», percettività vibratile, occupazioni insolite, rottura degli schemi, grazia ludica, provocazione del lettore, si pensi ai libri-almanacco, al contro-romanzo Rayuela, a Libro di Manuel, a Fantomas. Con questi mezzi, Cortázar, cui Tabucchi riconosceva «occhi sulla nuca» per cogliere l’altrove, si ribadisce intanto «Latinoamericano scrittore» più che scrittore Latinoamericano, e poi senz’altro «più realista dei realisti» nella sua visione dilatata della realtà e nelle tre fasi del suo esemplare percorso di scrittore: «dall’io al tu al noi».