Reiner Stach è al momento, in Germania, il maggiore e più conosciuto biografo di Kafka. Il suo quasi ventennale lavoro si è concluso nel 2014 con la pubblicazione presso Fischer del terzo volume dell’impresa biografica. Nell’insieme, un’opera imponente che unisce il rigore della ricostruzione alla tensione e alla bellezza del racconto. Sempre da Fischer, nel 2012, Stach ha pubblicato un volume kafkiano assai più agile nella mole e negli intenti, Ist das Kafka? 99 Fundstücke, ora nella traduzione, accuratissima ed elegante, di Silvia Dimarco e Roberto Cazzola per Adelphi: Questo è Kafka? 99 reperti (pp. 360, euro  28,00). In risposta alla domanda del titolo (ma davvero? possibile che questo sia Kafka?) Stach conduce con abilità e umorismo la regia del libro: dispone in otto sezioni tematiche 99 «ritrovamenti» sulla vita e l’opera di Kafka, e dedica a ciascuno sobri commenti di poche righe o di qualche pagina, con titoli spiritosi e leggeri che accendono la curiosità e portano a sorridere divertiti: «Kafka bara all’esame di maturità», «Kafka si infuria», «Kafka vorrebbe essere come Voltaire», «Come Kafka e Brod quasi diventarono milionari», «Kafka falsifica una firma (II)» (quella di Thomas Mann), «Kafka e Brod perdono al gioco i soldi della cassa comune per il viaggio», «Kafka senza pruderie».

È una collezione di fotografie, cartoline, dediche, frontespizi di libri, ricordi di amici, impressioni di conoscenti, che Stach ha raccolto in archivi e case private di città europee, americane e israeliane (l’apparato delle illustrazioni è davvero interessante). Ma i reperti sono anche e soprattutto, oltre ad alcuni disegni, passi kafkiani tratti dalle lettere, dai diari e dai quaderni di appunti. Nulla di nuovo, certo, ma Stach cerca brani più riposti, poco conosciuti, che alla luce di questa attenzione esclusiva acquistano diverso rilievo. La scelta è felice, così come gli accostamenti e l’ordine generale. Fine dell’opera, più che evidente ma sottolineato da Stach nella breve introduzione, è di sottrarre Franz Kafka al peso degli stereotipi che ne condizionano la lettura presso il pubblico meno avvertito e attento. Questo è Kafka? contribuisce a minare e decostruire quel tenace intreccio di miti che imprigiona Kafka, scrittore universalmente conosciuto, nel canone astratto delle celebrità indiscusse: tanto indiscusse che la loro complessità e realtà non sono più, se non presso l’élite dei lettori congeniali, oggetto di domande, dubbi e riflessioni.

In Stach si parla, per esempio, del curioso, spesso incoerente modo con cui Kafka trattava il denaro; della sua avversione per i medici; della disciplina sportiva (ginnastica, nuoto, remi) con cui cercava di dar forza a un corpo troppo magro che fin da bambino apriva in lui abissi di disagio; della sua propensione alla risata; della sua attenzione per i bambini; dei pochi casi in cui parlava male di qualcuno; delle emozioni che quasi sempre reprimeva e disciplinava; della sua difficoltà a mentire; della delicatezza con cui, mentendo, volle tener nascosta ai genitori la sua malattia; del modo in cui, appunto, affrontò la tubercolosi; delle sue idiosincrasie alimentari, oggetto di autoironia; della tendenza a giustificare le proprie azioni fin nei dettagli, ossessionato com’era dal bisogno di correttezza e onestà; del sesso, di cui Kafka sapeva anche parlare con certa rude franchezza.

Aspetti, questi, che Stach ha sempre studiato e messo in evidenza nei tre volumi della biografia, inserendosi nella linea degli studi kafkiani che ormai da anni lavorano con successo per rendere conto dell’autore in tutta la complessità e i chiaroscuri della sua personalità: un’attenzione al dato concreto che le tentazioni agiografiche inaugurate da Brod e alimentate da tanta critica hanno sempre negato. Solo che qui, nei 99 reperti, l’inserimento dell’autore in una complessa realtà storica, sociale, familiare e psicologica è il fine esclusivo: sicché la ‘peculiare normalità’ di Kafka emerge con particolare chiarezza.
Speciale interesse rivestono a mio avviso due delle sezioni tematiche in cui si articola il libro di Stach: «Leggere e scrivere» e «Slapstick». Per ovvie ragioni la prima, perché conservano attualità i documenti e le considerazioni che con finezza e senza invadenza – come qui accade – continuino a interrogarsi sulle modalità e le fonti d’ispirazione della scrittura kafkiana. «Slapstick» perché insiste in maniera convincente sulla comicità nell’opera di Kafka, un tema su cui si scrive da tempo ma che offre ancora margini di riflessione.

Laconicamente seria è invece l’ultima sezione, «Fine», in cui Stach si ritira quasi del tutto e lascia parlare i documenti: i due brevi testamenti con cui Kafka dispone delle sue carte, l’iscrizione sepolcrale e l’elogio funebre scritto da Milena Jesenská. Soprattutto, l’ultima lettera, scritta da Kafka ai genitori il giorno prima della morte nel sanatorio di Kierling, vicino a Vienna: in una grafia quasi irriconoscibile, con tono lieve e amorevoli bugie, Kafka chiede ai genitori di rimandare ancora un poco la loro visita perché, anche se «tutto volge al meglio», non si è ancora «ben ripreso».
Che l’opera di Stach non sia un «Köder», una garbata esca volta a sollecitare la curiosità dei lettori, lo hanno sottolineato nel 2012, all’uscita del libro, importanti voci critiche sulla stampa di lingua tedesca, da Manfred Koch a Hubert Spiegel a Fritz J. Raddaz. Il solo rischio della raccolta di Stach è che i «reperti», anziché essere letti come parti di un grande quadro, vengano presi per se stessi, come trouvailles, stranezze, stravaganze, o troppo umane debolezze dell’uomo e scrittore Franz Kafka. Ma non occorre grande sforzo per evitare il pericolo e comprendere l’intenzione vera di Reiner Stach.