Awam Amkpa, professore associato di Arte drammatica e Teoria culturale alla New York University, è autore del volume Theatre and Postcolonial Desires (2003), nonché regista cinematografico e teatrale. Nel 1993 si è laureato all’Università di Bristol, ma è in Nigeria (è nato a Kano) che ha respirato il clima culturale «eterogeneo, ibrido e interdisciplinare», formandosi accanto a Wole Soyinka, primo scrittore africano a conseguire il Premio Nobel per la Letteratura. Nel 2010 ha ideato e curato la mostra fotografica itinerante Africa See you, See me (che nel 2011 e approdata in Italia, alla Fondazione Marangoni di Firenze e a Roma da Officine Fotografiche) in cui aveva invitato prevalentemente fotografi africani (tra loro i nigeriani J.D. Okhai Ojeikere, Ologeh Otuke Charles, Andrew Dosunmu, Uche Okpa-Iroha e George Osodi) a rappresentare se stessi e il loro contesto culturale, ribaltando la visione coloniale e postcoloinale.
La prossima collettiva, ReSignifications: Presence of Absence, è in programma a Villa La Pietra di Firenze (20 maggio-29 giugno), accompagnata dalla conferenza Black Portraitures II.

«Devo pensare che il petrolio abbia contribuito ai massacri e ai genocidi della guerra del Biafra e di Boko Haram? – afferma Amkpa – Assolutamente! L’errore peggiore è quello di ritenere che il problema sia semplicemente etnico e non prevalentemente economico. Il petrolio genera violenza, creando la lotta di classe più bizzarra e assurda che ci sia. Una lotta che mette una comunità contro l’altra. Fondamentale penso che l’errore della Nigeria sia quello di considerare le risorse naturali come il petrolio la principale fonte di ricchezza. In realtà sono i suoi abitanti il patrimonio del paese. Il benessere dovuto alle risorse naturali ha messo le persone in pericolo, a causa dell’elevato profitto, della speculazione, della corruzione e dell’avidità che i profitti del petrolio hanno innescato. La Nigeria è un paese molto vario e le sue etnie non sono qualcosa di statico. Piuttosto, le identità delle comunità e degli individui continuano a creare un ambiente culturalmente ricco che la classe politica non è riuscita a valorizzare a causa dalla cattiva gestione del paese. Ci sono, poi, altri problemi sociali che sono la conseguenza di errori terribili, della povertà di visione. Il petrolio ha trasformato lo stato in un nemico della sua gente».

Sono circa 250 i gruppi etnici che popolano la Nigeria, un paese fortemente diviso tra il nord dominato dagli Hausa-Fulani a maggioranza islamica, il sud-ovest dagli Yoruba e, nell’area sud-orientale, gli Igbo prevalentemente cristiani. Come è tristemente noto, la politica del terrore applicata dall’organizzazione terroristica jidahista nel nord della Nigeria ha causato, solo all’inizio del 2015, migliaia di vittime. Amnesty International parla di almeno duemila abitanti massacrati a Baqa, civili che scappano in massa dalle loro terre, ancora tragedia nei mercati di Potiskum e Maiduguri con le bambine kamikaze.

«Una macchina genocida sistematica si è scatenata sui nigeriani del nord. Si tratta di un fenomeno storico complicato, ma il fatto è che viola le comunità. Il governo è inadeguato e, in molti casi, disinteressato alla carneficina. Il numero di morti nel nord sono più grandi rispetto alle notizie di Amnesty International. Testimoni oculari sostengono che le irruzioni di Boko Haram, così come quelle delle truppe governative, siano quotidiane. Le persone vengono prese in ostaggio e giustiziate in modo casuale. È sbagliato e ingiusto chiamare le ragazze e le donne kamikaze, perché non lo sono. Si tratta di persone rapite e i loro corpi vengono dotati di armi per ucciderle e danneggiare gli altri. La parola kamikaze, invece, suggerisce il coinvolgimento in una causa e la conseguente motivazione a uccidere. La rabbia, l’incomprensione e l’impotenza che ogni giorno ciò provoca in noi è inquietante. Sono molte di più le persone massacrate da Boko Haram di quelle che morirono l’11 settembre negli Stati Uniti, o altrove, addirittura della maggior parte degli omicidi. Il senso d’indignazione non è solo legato all’impotenza dei nigeriani, ma di tutta la comunità internazionale che continua a fare affari con la Nigeria e, difficilmente, riporta le notizie. La mia famiglia allargata continua a spostarsi da un posto all’altro, molte famiglie sono sfollate. L’istruzione è diventata un campo di battaglia, e certamente educare una ragazza è visto da Boko Haram come un’anomalia. La povertà, l’insicurezza e la disperazione facilitano l’ossessione, il fanatismo religioso. Le ragazze rapite a Chibok sono più di 200 e da allora molti più bambini, in particolare le ragazze, vengono utilizzati anche come armi. Quei bambini non sono soldati, ma vittime di omicidi e utilizzati per infliggere dolore agli altri. I nigeriani non possono vivere, figuriamoci immaginare la libertà di esprimersi senza rappresaglie da parte di pazzi che credono di combattere per una società fondamentalista. La situazione pone purtroppo l’arte in un pantano morale e l’uccisione di qualsiasi utopia è la campana che suona a morte rispetto a come un popolo immagina la propria soggettività. La Nigeria, in questo, è sulla buona strada e il nostro ruolo è quello di fermarla nei suoi passi sbagliati».

Fin dagli anni ’60, in questo paese particolarmente creativo si è sviluppata l’industria cinematografica (e poi televisiva) di Nollywood, che porta indotti cospicui. «Alcuni grandi registi come Tunde Kelani, Kunle Afolayan, Charles Nebue, Lancelot Imasuen, Mahmod Alli-Balogun e Amaka Igwe e molti altri hanno ampliato la portata di ciò che è Nollywood…. L’arte continua a fornirci testi che coinvolgono la società, archivi del nostro passato e metodi per produrre il tipo di mondo cui potremmo aspirare, in cui le disuguaglianze sociali sono sconfitte».