Negli ultimi tre giorni un’ondata di proteste e violenze ha paralizzato la vita della valle del Kashmir. Venerdì notte Burhan Wani, comandante 22enne del gruppo armato separatista Hizbul Mujahideen, viene ucciso dalle truppe indiane in uno scontro a fuoco. Wani, sulla cui testa pendeva una taglia di 1 milione di rupie (13.500 euro circa), godeva di grande fama tra la popolazione. Al diffondersi della notizia, la rabbia prende il sopravvento: nel sud del Kashmir, zona di origine di Wani e roccaforte della ribellione armata, la notte esplodono scontri con l’esercito indiano.

Il giorno dopo le frasi di cordoglio intasano i social network e migliaia di persone, in arrivo da tutta la valle, si stringono per un ultimo saluto ai funerali del comandante, sancendo un sempre più chiaro patto di fedeltà tra popolazione e guerriglieri. Mentre dagli altoparlanti delle moschee escono slogan anti-indiani e pro-indipendenza, i kashmiri scendono in strada per protestare. Alla pioggia di pietre, l’esercito indiano e la polizia kashmiri aprono il fuoco indiscriminatamente sui manifestanti. Arrivano i primi morti. Nei giorni seguenti la sospensione della linea telefonica e il severo coprifuoco per tentare di controllare la situazione non fermano le contestazioni. L’impietoso bilancio, ad oggi, conta 30 deceduti – tra cui un poliziotto – e 300 feriti. «Un colpo sparato alla testa semplicemente uccide.

Pochissimi arrivano con ferite al di sotto dell’addome» dichiara un medico dell’ospedale di Srinagar, dimostrando come la sproporzionata violenza delle forze dell’ordine non risponda ad una normale logica di gestione della protesta.

Questo il livello di repressione che il Kashmir ha conosciuto fin dal 1989, quando migliaia di kashmiri imbracciarono le armi. Alcuni combattevano per l’indipendenza, altri per l’annessione al Pakistan. Ma 600mila truppe indiane, e la completa impunità garantita da alcune leggi speciali – il numero non è cambiato e le leggi sono ancora in vigore – permisero di schiacciare la ribellione, prendendo di mira soprattutto i civili: parliamo di 60mila vittime nell’arco di un decennio.

Eppure, i martiri degli anni Novanta oggi devono stringersi nei numerosi cimiteri per far spazio ad una nuova generazione pronta a dare la vita pur di mettere fine all’occupazione indiana che, di fronte alle continue rivendicazioni della valle negli ultimi 30 anni, conosce una sola risposta: morte.

Dal 2014 i numeri di coloro che si uniscono alla lotta armata sono aumentati. Siamo lontani dalle masse del 1989, ma nella valle sono tutti convinti che la guerriglia sia entrata in una nuova fase. Questi giovani oggi sono più istruiti e più consapevoli politicamente.

Burhan Wani, entrato in Hizbul Mujahideen nel 2010, era diventato da qualche tempo il simbolo di questa generazione che ha conosciuto un solo volto dell’India: quello della brutale militarizzazione. A fronte delle faziose dichiarazioni indiane che sostengono i guerriglieri siano tutti Pakistani, Burhan era apparso più volte in video diventati virali sul web, rivendicando la sua origine locale. Gran parte del successo e della fama di Wani deriva dall’uso dei social network per diffondere messaggi politici e reclutare. Accanto ai giocatori di cricket, spesso pakistani, questo ragazzo di 22 anni era diventato un idolo per molti.

Gli ufficiali indiani hanno definito l’operazione «un grande successo». Ma è molto probabile che il martirio di Burhan avrà un immenso impatto sui giovani coetanei, infiammando i loro spiriti e spingendoli ad emularlo. La sua morte potrebbe rappresentare una direzione verso cui incanalare le delusioni degli ultimi anni: un cambio di paradigma in cui con le armi si tenterà di ottenere quello che le rivolte del 2008 e 2010 non hanno ottenuto con le pietre. La valle scivola di nuovo in un circolo vizioso di repressione e martiri. Ancora una volta, come da ormai 69 anni – da quando la valle è amministrata dall’India – l’estate in Kashmir diventa la stagione della morte e della repressione.