Chiediamo a Kelly Reichardt di parlarci del suo ultimo film, “Certain Women“, un trittico di storie, impercettibilmente collegate tra loro, interpretate da Laura Dern, Michelle Williams, Kristen Stewart e Lily Gladstone, e una sottile meditazione sui temi della solitudine, del desiderio e della ricerca del «luogo» di se stessi. Il titolo si riferisce (anche) a un film di Peggy Ahwesh, collega e fonte d’ispirazione di Reichardt.

Dopo quattro film girati in Oregon, com’è il Montana?

Freddo è la prima parola che viene in mente. Avevamo pensato anche all’Idaho e all’Oregon – il mio produttore mi diceva che le differenze del paesaggio non giustificavano i costi dello spostarsi in Montana. Ma poi ci hanno offerto un finanziamento, così abbiamo potuto girare lì. Ci abbiamo vissuto tre mesi. Avevamo «il nostro» negozio di alimentari, i posti dove andare a pescare nel week end… Io stavo in una casetta affacciata su un ruscello. In effetti, era tutto diverso dall’Oregon. A partire dal fatto che si sono catene di montagne ovunque guardi; quindi ti senti rinchiuso –specialmente se hai sempre vissuto vicino ad una costa, come me. Ti senti affogato dalle montagne, ma anche isolato e protetto, e capisci come quella condizione possa influenzare il tuo modo di pensare di esistere.

Anche in questo tuo film, in effetti, i personaggi sembrano il prodotto del paesaggio.

Maile Meloy, dai cui racconti ho tratto il film, è cresciuta lì. Certo, il freddo e l’isolamento sono determinanti. È un isolamento magnifico, ma che può rendere la tua vita molto solitaria. Sono due tensioni opposte –quella tra l’amore per il luogo e il desiderio di qualcosa di più- che coesistono, per esempio, nel personaggio di Kristen Stewart; e che sentivo anche in una delle mia attrici, Lily Gladtsone, nata proprio in Montana, a Missoula. Come vivere? È la domanda intorno a cui ruota tutto, non trovi? Anche per me – una newyorkese che attraversa in macchina gli States più volte all’anno, e che cerca un equilibrio con il mondo naturale ma è abituata a quello che offre una città. Ed è la domanda che si pongono i personaggi del film, quello di Stewart che vuole andare oltre ciò che la circonda; e quello di Michelle Williams, che arriva da fuori e crede che di poter creare una vita perfetta per sé e la sua famiglia se costruisce una casa perfetta.

Da quattro film a questa parte questo è il primo che non scrivi con Jon Raymond.

È stato un percorso molto solitario. Non avevo nessuno con ci parlare, scambiare delle idee. Ma ogni tanto è bene smuovere le acque. Mi chiedevo se in questi racconti –che trovo bellissimi- ci fosse veramente un film. Alla fine, quello da cui è tratto l’episodio centrale, e che molti trovano più problematico, è stato quello che mi ha aiutata a tenere insieme il tutto. All’inizio, rispetto agli altri, non ne capivo l’utilità. Però mi tornava sempre in mente. E, in effetti, funziona un po’ come un filo che ci conduce al ranch (dove sta la ragazza indiana interpretata da Lily Gladstone; n.d.r.), riportandoci così all’idea del diritto di conquista su cui sono stati fondati il West e l’America stessa. È un tema enorme, ma mi piaceva introdurre un sintomo di questa cieca ambizione. È una donna che, incapace di affrontare la dimensione emotiva della sua famiglia, cercava di gestirne i problemi dall’esterno, in modo materiale.

I tuoi film vengono spesso definiti dei western. Ti fa piacere?

Presi singolarmente, hanno tutti degli elementi western molto forti. Certain Women apre sull’immagine di un treno, il primo effetto sonoro è il fischio di una locomotiva. Ma è difficile girare il paesaggio del West senza tenere conto della sua storia. Parte del disagio che provano i personaggi nei confronti della loro esistenza è ascrivibile a quella storia. Nel cinema americano, il western è quasi interamente definito dagli uomini, con poche eccezioni, come Ida Lupino. In Meek’s Cutoff ho cercato di riconoscere l’esistenza di quel linguaggio e allo stesso tempo di non rimanerne intrappolata. Non c’è una prospettiva –senza voler usare parole troppo grosse- femminista del western.

I tuoi film sono storie di donne, e non potrebbero che essere diretti da una donna, ma sono così meravigliosamente distanti dai cliché dell’empowerment, o della vittimizzazione, femminili formulati nel cinema americano di oggi.

Mi sembra superato, accondiscendente, parlare di registi donne, gay, neri.. Rifiuto da sempre di parlare di me come di un filmmaker definito dal suo genere. Ma inevitabilmente quella realtà, quel filtro, quella sensibilità esacerbata, sono nel mio cervello.. E quella sul gender è una conversazione molto più difficile, complessa, da gestire di quella sulla razza- come d’altra parte si è visto con le elezioni di quest’anno. Non voglio assolutamente dire che la realtà di un afroamericano sia più facile di quella di una donna, ma la rapidità con cui quella conversazione è scomparsa dice molto sulla sua inafferrabilità. Mi farebbe piacere se i miei film –senza trarre conclusioni- trasmettessero il senso di quel territorio oscuro.

Dopo i risultati delle elezioni, si è parlato molto di «un’America lasciata indietro». È un’America che racconti da sempre. In Certain Women, hai visto i sintomi di quello che sarebbe successo?

No. Quando giravamo Wendy and Lucy la crisi economica era parte integrante del film. Il disprezzo per i poveri era nell’aria dell’America di George W. Bush. Oggi, l’impressione che si ha attraversando il paese è che le identità dei singoli stati non ci siano più. La lunga mano delle corporation è in quello che senti alla radio, nell’architettura indistinta, nel cibo cattivo, nello scarso rispetto per l’ambiente. Da piccola, quando d’estate con i miei andavo da Miami al Montana, ricordo i cavalli selvaggi, la stazioni radio che cambiavano con la linea di confine, i coffee shop sul ciglio della strada. Adesso è tutto un Taco Bell e Applebee, e sei sempre sintonizzato su Clear Channel. Ti fa pensare all’assenza di un pensiero, di una cultura. E penso che la mancanza di arte e di cultura sia pessima per il cervello, e parte del problema in cui ci troviamo adesso.

Ho letto con avidità tutti i romanzi dello scrittore native American James Welch ma, con mia grande sorpresa, quando sono arrivata in Montana, fuori dalla Riserve indiane c’erano solo bianchi. La traccia della cultura native è nelle vetrine degli shopping mall, nell’arredamento dei motel. Un riferimento vuoto, decorativo. Nel film, il personaggio interpretato da Jared Harris, è un uomo sulla cinquantina che improvvisamente si trova di fronte a un’ingiustizia: il sistema disegnato per lui non funziona più a suo vantaggio. È un personaggio da «Make America Great Again», infatti perde le staffe. Ci era sembrato rilevante durante le riprese, molto di più dopo novembre.