A Venezia lo attende una poltrona vuota, a lui simbolicamente riservata dato che non ha potuto raggiungere il Lido per presentare il suo film. Il regista curdo iraniano Keywan Karimi, autore di Drum – in concorso alla Settimana della critica – è infatti «confinato» in Iran in seguito a una sentenza che lo condanna a un anno di carcere e 223 frustate, comminatagli per il suo documentario Writing in The City, che ricostruisce la storia dell’Iran contemporaneo, dalla rivoluzione alle elezioni del 2009, attraverso le scritte sui muri.

Il regista, appartenente a una minoranza etnica discriminata, è ufficialmente perseguitato per aver «offeso la sacralità islamica»: come raccontato da lui stesso a questo giornale. Per via del suo documentario è stato arrestato, in seguito rilasciato e infine condannato, oltre alle frustrate, a sei anni di carcere poi ridotti a uno dalla sentenza definitiva. Karimi è ora in attesa di conoscere la sua sorte, passibile di arresto in qualsiasi momento e prigioniero di un limbo asfissiante che è il retroscena ma anche la sostanza stessa dell’atmosfera che si respira nel suo primo lungometraggio di finzione (Tabl il titolo originale).

L’avvocato protagonista del film – di cui non sapremo mai il nome, come quello di chi lo circonda – riceve da un cliente un misterioso e pericoloso pacchetto su cui vogliono mettere le mani anche dei malavitosi che cominciano da subito a minacciarlo per farselo consegnare. Ma il pacco non è che il McGuffin di hitchockiana memoria, il pretesto e il centro da cui emana una tensione che in realtà è tutto intorno, nei quartieri sfregiati dalla speculazione edilizia di una Teheran in cui si consuma un noir senza speranza. Non ci sono trame criminali che possono essere svelate e sconfitte così come non c’è modo di tener fede alla propria integrità umana e professionale: la lunga mano del potere che opprime può arrivare ovunque e in qualsiasi momento, come la voce di Ahmadinejad che giunge per radio a minacciare i suoi oppositori.

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«Voglio conoscere la storia dell’uomo che mi ha consegnato questo pacco» dice l’avvocato ai suoi antagonisti. Ma la sua storia non ha importanza, non è che un’altra delle tante voci ridotte a silenzio. Piuttosto, chiedono all’uomo i suoi persecutori, perché affannarsi dietro al pacco quando vendendo la sua grande casa – facendola demolire e poi ricostruire – il piccolo avvocato potrebbe sistemarsi a vita? Vere protagoniste del film, dopotutto, non sono che le mean streets della capitale iraniana, su cui Karimi si sofferma di frequente, anche perdendo il suo protagonista e ritrovandolo altrove: magari sul tetto di un palazzo in costruzione, nuovo mostro che prende forma contemporaneamente alla storia.

Fotografata con un bianco e nero espressionista come la Vienna post guerra mondiale del Terzo uomo, anche l’irriconoscibile Teheran di Drum è una città ferita in cui regna la sopraffazione. Ma se nel film di Carol Reed la tensione tra il bene e il male era il dilemma morale che percorre la trama, qui siamo già tra le persone ridotte a puntini osservate da Harry Lime (il personaggio corrotto interpretato da Orson Welles) dalla vetta della ruota panoramica che sovrasta la città: «sentiresti pietà se uno di quei puntini si fermasse per sempre?».