Nella bolla che racchiude il Lido il mondo arriva ovattato, distante, un’eco indistinta tra i pronostici sul Leone d’oro che sarà assegnato stasera (molto favorito Birdman di Inarritu ma anche The Look of Silence di Oppenheimer), i commenti sui film e le chiacchiere people, la meteo, i prezzi locali che non conoscono deflazione – del resto dopo una stagione balneare funestata dalle piogge tocca rifarsi no? – la ricerca spasmodica dell’invito al «festone» o almeno di una cena dove imbucarsi. Eppure sugli schermi veneziani di questa edizione numero 71, il mondo di guerre, crisi economiche, devastazioni sociali entra con prepotenza, attraversando le opere dei cineasti in diverse forme, e soprattutto pone un interrogativo fondamentale che riguarda la sua relazione con le immagini. col mondo. Dove avviene oggi il corpo a corpo tra immaginario e realtà, quando le immagini sono ovunque, tutto è vero, dunque tutto è falso, tanto che un’intervista a un mafioso in tv può sembrare una ricostruzione in studio, e le decapitazioni in diretta dei giornalisti, postate su Youtube, hanno come sfondo un deserto che somiglia a quello di Lawrence d’Arabia.

Confrontarsi con questa ambiguità è pensiero che accomuna molti dei cineasti presenti questi giorni sul Lido, dal film inaugurale, Birdman, quasi un manifesto teorico, al magnifico Pasolini di Abel Ferrara (molto amato dalla stampa straniera, di certo più che da quella italiana).

In questa direzione va Le notti bianche di un postino, in concorso, magica sorpresa arrivata alla fine, anche se preceduta da «rumors» molto positivi, del regista russo Andrei Konchalovsky, sceneggiatore negli anni sessanta di Tarkovsky (sua quella dell’Infanzia di Ivan, vincitore del Leone d’oro nel ’62), poi nome di punta delle nouvelle vague sovietiche premiate nel mondo e censurate a casa dal regime, che negli anni Ottanta si è trasferito in America, per poi tornare in Russia

Siamo sulle rive del lago Kenozero, nel nord della Russia, in un piccolissimo villaggio circondato da una natura meravigliosa e molto isolato. I pochi abitanti che vi restano sono infatti adulti e anziani, si conoscono tutti tra loro, e condividono il quotidiano. Aleksey Tryaipitsyn è il postino che con la barca porta le lettere, il pane, le pensioni, le medicine. «Ma oggi nessuno scrive più lettere» osserva il ragazzino arrivato da fuori con la madre poliziotta, «Il pane non si manda per sms» gli replica l’uomo. Il resto sono le storie e le leggende, i ricordi dell’infanzia, tra le macerie della scuola abbandonata, il kikimoro, l’animale che fa paura al piccolo e che si nasconde nei boschi. Il silenzio e l’acqua che scivola sotto la barca. Le discussioni sulla vita e sulla vodka che è facile promettere di non berne più ma poi si ricomincia sempre. Il rito delle consegne con le quali il postino ci fa conoscere gli abitanti, ci porta nelle loro case. L’amore dell’uomo per la bella Irina, la madre del bambino che è tornata al villaggio dopo la separazione ma pensa solo a come fuggire di nuovo in città.

Le memorie del romanticismo socialista che scompaiono quando muore la più anziana del villaggio, e quel gatto grigio misterioso che balena davanti agli occhi di Aleksey e poi svanisce, inghiottito dalla luce dello schermo televisivo sempre acceso. Un giorno però al postino rubano il motore della barca, e qualcosa, forse il senso di un tradimento, rompe quella serenità quasi naif.

Konchalovsky ha lavorato con attori quasi tutti non professionisti – come del resto è accaduto già in altri suoi film – a cominciare dal postino, che è nato lì, e a differenza dei suoi fratelli ha deciso di rimanervi consegnando la posta, per lui la cosa più difficile di questa esperienza è stata non guardare mai in macchina. Non un Eden il villaggio, anzi, entrando nelle loro casette scopriamo un mondo povero, di sopravvivenza, dimenticato dalle istituzioni che sembrano favorire il progressivo abbandono dei villaggi come questo dove non è rimasta neppure la scuola, obbligando così i più giovani a partire. E dove però esiste la stessa corruzione cittadina, che privilegia i potenti a scapito dei pescatori a cui la poliziotta Irina – assai malvista – da multe altissime perché pescano contro la legge mentre finge di non vedere il generale che fa lo stesso.

Però non è un film «realista» Le notti bianche di un postino, ne tantomeno un documentario, e se i titoli di testa ci parlano di personaggi e storie «vere», questa loro verità nasce da una messinscena che ne trasporta l’esistenza in una narrazione, e nell’universo poetico della grande tradizione letteraria (e cinematografica).

E già dal titolo dostojevskiano, Konchalovski immerge questo piccolo mondo in un’atmosfera fantastica, un sogno che è il rumore dell’acqua, il silenzio e il pianto di un ragazzino spaventato, la malinconia infinita di un’anima che fa male, l’umorismo goffo di un amante respinto. La sua macchina da presa (digitale) segue amorosamente ma senza retorica della nostalgia i suoi personaggi, entra in vite che sono romanzi, e si pone tra le pieghe di quel loro essere catturandone le epifanie.

Sono attimi ineffabili nell’apparenza, qualcosa che rimane sospeso nell’aria, lo stridore tra la quiete di un’alba e l’immagine di un missile che si alza in cielo. La potenza sensibile del cinema.