Su Ron Howard l’etichetta di «classico» pesa in maniera indiscriminata, utilizzata quasi sempre senza una reale cognizione di causa. Ironicamente il classicismo gli viene rimproverato sia come una sua presunta incapacità di essere all’altezza del modello dei maestri, sia, al contrario, come pigro ossequio al modello narrativo dominante nel cinema statunitense. Vero è che Ron Howard, allievo di seconda generazione della scuola di Roger Corman, ha sempre conservato negli occhi il modello di un cinema in grado di raggiungere un pubblico ampio, ma allo stesso tempo ha sempre tentato di introdurre elementi di discontinuità formale rispetto al tradizionale racconto «invisibile».

 

 

 

Valga come esempio la struttura delle allucinazioni di A Beautiful Mind, forse uno dei suoi film più riusciti di sempre, oppure The Missing, cupo western crepuscolare poco conosciuto. Produttore di se stesso, Howard si concede anche il lusso e il rischio di fallimenti mirati, a costo relativamente contenuto, in modo da rientrare dell’investimento, per concedersi maggiori margini di avventura e divertimento. Se si tiene presente che uno dei primi a incoraggiarlo a fare del cinema è stato Henry Fonda (cui l’aspirante regista aveva mostrato i suoi Super 8) e che ha lavorato sul set de Il pistolero di Don Siegel al fianco di John Wayne, ci si rende conto che Howard oggi rappresenta uno dei pochissimi testimoni oculari in grado di raccontare del passaggio epocale fra vecchia e la nuova (nuovissima) Hollywood.

 

 

Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick è un progetto ambizioso, visionario, e rappresenta al meglio la tensione più fertile del cinema howardiano. Ispirandosi al naufragio della baleniera Essex, avvenuto nell’Oceano Pacifico nel 1820, speronata da un capodoglio della larghezza – stando ai racconti dei sopravvissuti – di 26 metri, che si muoveva alla straordinaria velocità di 24 nodi – un fatto di cronaca cui si sarebbe ispirato Herman Melville stesso per il suo Moby Dick – Ron Howard firma un nuovo capitolo della sua poetica che il diretto interessato definisce come «persone che falliscono in maniera nobile». Proprio come in Apollo 13, Ron Howard ci permette di partecipare di una comunità che si struttura e si organizza nel lavoro. E se Apollo 13 era l’apogeo del capitalismo inteso come progresso scientifico e del sapere, Heart of the Sea si pone alle origini del capitalismo statunitense. L’olio che permette alle città di brillare è custodito nel ventre delle balene (ma c’è un altro olio ben più potente che cova nelle viscere della terra). Dal porto di Nantucket la società statunitense si organizza compiendo la trasformazione da società marittima a una di capitalismo avanzato.

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Heart of the Sea è il racconto delle origini del capitale americano. Howard, con grande intelligenza, nel binomio del conflitto fra il primo ufficiale Chase e il capitano Pollard introduce anche il germe della lotta di classe: merito contro sangue. La tragedia della Essex, come quella dell’Apollo 13, è organica a una poetica della sconfitta che è parte integrante della Weltanschauung statunitense. Anche Heart of the Sea è popolato da cuori ribelli, nuovo capitolo della nascita di una nazione secondo Howard. Nel mettere mano a un materiale tanto ricco, Ron Howard evita accuratamente il calco calligrafico in stile Master and Commander dimostrando invece di avere studiato e appreso alla perfezione la lezione di Leviathan di Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel.

 

 

 

L’approccio howardiano, infatti, è puramente documentario. Il moltiplicarsi dei punti di visti – c’è persino una «soggettiva» impossibile di una vela che si abbassa (così come in Leviathan ci sono le «soggettive» delle reti) – è il segno del lavoro necessario a tenere a galla la baleniera: l’immagine della sua divisione del lavoro. Come una catena di montaggio galleggiante. Howard infrange subito la possibilità che lo spettatore possa avvicinarsi al suo film come a una replica del genere marinaresco così come l’ha codificato Hollywood. Il vorticare dei punti di vista e il montaggio non lineare, diremmo addirittura «cubista» quando mette in scena il lavoro sulla nave, è la negazione totale del cosiddetto cinema «classico». L’approccio documentario di Howard è per certi versi analogo a quello di Michael Mann nei confronti della matrice e ai virus informatici di Blackhat. Entrambi rifiutano il racconto «invisibile» per evidenziare la materia viva dell’immagine del post-cinema.

 

 

In questo senso Howard si dimostra assolutamente allineato filosoficamente con le maggiori intelligenze attive del cinema statunitense oggi. Esemplare è anche il modo in cui il regista utilizza la grafica digitale. Non per ricreare tempeste e scontri fotorealistici, ma come a rievocare la pittura marinara di Pieter Mulier (detto Pietro Tempesta), di William Turner o di John Constable. Certo; l’ispirazione di Howard è classica, ma è il suo approccio cinematografico e poetico a essere assolutamente modernista. Contemporaneo. Nel mettere in scena una tragedia che ha definito sia il capitale statunitense sia la letteratura nordamericana attraverso il capolavoro di Melville, Ron Howard ne filma la rievocazione come in un assoluto presente; riscontro della tragedia di allora nel cinema di oggi. Un’autentica verifica incerta. Fra le più vitali ed entusiasmanti del cinema statunitense degli ultimi anni.