Telecom, Metroweb, Fastweb, Enel, Terna, e ora anche Ferrovie dello Stato. Nel balletto che si sta consumando in questi giorni attorno al futuro della banda larga in Italia, non si può certo dire che manchino primattori e comprimari.

Tutti disposti, a parole, a «fare la loro parte», per superare o almeno attenuare il divario di prestazioni che vede l’Italia agli ultimi posti in Europa quanto a diffusione della fibra ottica e a velocità massime di connessione disponibili. E il Governo in mezzo, a twittare messaggi rassicuranti sulla non interferenza dell’esecutivo nei piani industriali delle aziende.

Vista da fuori, e tenendo bene a mente la cronologia degli eventi, la soap opera si dipana con una sua contorta logica. Di per sé, il progetto di Enel di mettere a disposizione la propria capillare rete di distribuzione – 450mila cabine, 24 milioni di abitazioni raggiunte – per portare sul territorio, assieme all’elettricità, anche i dati, non è nuovo. Risale ad almeno un mese fa, e ne avevano già dato conto varie testate online e cartacee.
Come mai la bomba dunque, è scoppiata solo ora, con un articolo di «Repubblica» che annuncia l’intenzione dell’esecutivo di mettere Telecom all’angolo, appoggiando il piano dell’azienda pubblica?

Fare dietrologie in Italia è fin troppo facile, ma è probabile c’entri l’accordo, pubblicizzato a inizio maggio, con cui Telecom si è alleata con Fastweb per commercializzare dal 2016 una tecnologia chiamata Vdsl enhanced – una sorta di Adsl potenziata, che spingerebbe al massimo le prestazioni fornite dal doppino in rame, arrivando fino a velocità di 100 megabit al secondo (contro i circa 30 Mbps dell’attuale Adsl veloce).
Per le aziende, questo significherà poter continuare a operare secondo il modello Fiber to the cabinet (Fttc), portando la fibra soltanto fino all’armadio in strada e non direttamente nei condomini. Un bel risparmio, specie per Telecom, che ha sul groppone 35 milioni di chilometri di cavi in rame di cui non saprebbe cosa fare, nel caso di passaggio repentino alla fibra.

Per gli utenti invece, non sarebbe proprio il massimo, dato che con la tipologia Ftth, Fiber to the home, si possono raggiungere invece velocità anche di 1 Gbps. Oltre a ciò, la collaborazione con Fastweb arriva proprio dopo che l’ex monopolista aveva chiuso le porte a un’analoga possibile iniziativa con Metroweb, la holding semi-pubblica che ha già cablato con la fibra vaste aree di città come Milano e Bologna, e che il governo aveva probabilmente individuato come possibile aggregatore di investimenti pubblici e privati. per la digitalizzazione del Paese.

Metroweb avrebbe messo la rete, e altre società, in primo luogo Telecom, i servizi. Ipotesi che però è naufragata già allo stadio di protocollo di intesa: l’idea della società di telecomunicazioni era quella di prendere gradualmente possesso dell’alleato, salendo nel corso di un quinquennio prima al 40% delle quote, e poi arrivando a rilevare l’intero capitale. Prospettiva che non è piaciuta a Metroweb.

Andato a monte, l’affare, ecco rispuntare l’ipotesi Enel. Che non è priva anch’essa di incognite. Non è chiaro, ad esempio, se Enel si candidi a portare connettività soltanto nelle cosiddette aree a fallimento di mercato – quelle dove gli operatori esistenti non investono perché non generano abbastanza profitti, e per le quali sono previsti incentivi pubblici – o se invece, l’azienda controllata dal Tesoro voglia proporsi come operatore su scala nazionale.

In quest’ultimo caso, si porrebbero dei problemi non da poco nelle grandi città, da Milano a Roma, dove Enel di fatto non è presente, e predominano municipalizzate come A2A e Acea. Come se non bastasse, Telecom minaccia ricorsi a Bruxelles se qualche concorrente ricevesse finanziamenti pubblici nelle zone dove 40 città dove l’ex monopolista intende portare la fibra coi propri fondi.

Nelle ultime ore sono entrate in campo anche le Ferrovie dello Stato: l’amministratore delegato Michele Mario D’Elia ha detto che la società è «pronta e disponibile» a offrire i suoi novemila chilometri di rete, una piccola parte dei quali già coperti da fibra ottica, per la digitalizzazione del paese. Insomma, ognuno cerca di ricavarsi il proprio posticino al sole.

Ma alla fine, dal gioco delle parti, ne emergerà qualche vantaggio per i cittadini? Dipende. Quello che è certo è che se l’Italia vuole raggiungere gli obiettivi dell’Agenda Digitale Europea: minimo 30 Mbps per tutti e almeno 100 Mpbs per metà della popolazione entro il 2020, deve mettersi a correre. Nella classifica globale di NetIndex, con una velocità in download di 11.10 Mbps si colloca oggi al 92esimo posto, agli ultimi posti in Europa.

Un destino strano per una nazione che solo una decina di anni fa, quando venivano cablati centri come Milano e Genova, era all’avanguardia. Si è scelto però di non proseguire su questa strada. Sarebbe sbagliato dare tutta la colpa a Telecom, ma è indubbio che quella del rame è un’eredità pesante. In Stati come la Romania, dove le infrastrutture sono state costruite praticamente da zero, partendo dalla fibra, si viaggia oggi a 60 Mbps. Un sogno, per noi.

Secondo una recente ricerca di «Accenture», una maggiore diffusione del digitale, potrebbe avere far crescere in media il Pil di 0,25 punti percentuali l’anno, il che equivale a un incremento dell’1,8% da qui al 2020. Tutti i servizi più avanzati, dalla telemedicina, alle conferenze in telepresenza, alle attività aziendali basati sul «cloud» (ossia sull’accesso a dati e potenza di calcolo da remoto), necessitano di connettività veloce e stabile.

Il ritardo italiano pesa anche in termini occupazionali. Lo sviluppo dell’Ict, ottenuto potenziando gli investimenti nel settore, potrebbe portare entro la fine del decennio alla creazione di 700.000 posti di lavoro. Per cui tornando alla vicenda Enel-Telecom, non conta tanto chi vincerà la partita, quanto che la schermaglia si concluda in fretta, e con un risultato che garantisca ai consumatori di poter aver accesso alla maggiore banda possibile, nel minor tempo possibile.