La fotografia riporta i dati della realtà tramite due essenziali modalità di scrittura: la riproduzione e la rappresentazione. La prima ne raffigura la semplice struttura, l’altra ne “costruisce” il senso che le deriva dalla carica simbolica che è in grado di trarne. (Carlo Gremese «La fotografia come rappresentazione»)

La visione di un morto suscita quasi sempre, e comunque sempre se ci è ignota la sua nefandezza, un moto a tratti incontenibile di pietas. Quel corpo esanime è stato un tempo un coacervo di sentimenti, di proposizioni, di festa e di grida ed ora giace per ricordarci il nostro limite di umani, o grida vendetta per l’oltraggio subito e grida perché qualcuno ripari quel torto o, al limite, ci indichi una strada meno impervia della desolata sterrata dell’Idroscalo.
Il cadavere di Pasolini, rimesso in posizione supina, rimanda a «La morte di Chatterton» di Henry Wallis, laddove il suicidio del giovane poeta si ammanta di simboli e a questi rimanda per la sua interpretazione; e, ancora, «La morte di Marat» di Jacques-Louis David anch’esso, forse in misura maggiore, contiene riferimenti simbolici e segni. Marat, nel quadro, sembra contrastare la morte con il sorriso che la beffeggia. Il rivoluzionario sembra in posa, non nella condizione totalizzante della morte, ma perché tende a costituirsi come icona della rivoluzione, di una rivoluzione vincente. Sono i chiaroscuri caravaggeschi che conferiscono a «La morte della Vergine» una valenza di epifania e di attesa, pur nello sgomento degli astanti. Gli apostoli affranti e la perduta disperazione della Maddalena fanno da cornice ad un corpo riverso su un letto, con la mano destra sul ventre ad indicare cotanta maternità e i piedi nudi offerti al ludibrio e allo sconcerto dei benpensanti. Un simbolismo accentuato da un drappo color vermiglio che indica sangue, la vita e la morte dunque ma, anche, nella sua composizione aerea rivolta verso il cielo, la nostra caducità.

Ma è «La zattera della Medusa» di Géricault a riportare alla nostra memoria l’orrore della notte della ragione che contemplò il supplizio del poeta. Le grida dei naufraghi che sovrastano la morte dei compagni e, ad uno ad uno, i volti dei morti e dei morituri ci vengono in aiuto nella decifrazione -in parte- della mattanza di Pasolini; i due naufraghi in cima alla piramide umana che con un drappo cercano di attirare l’attenzione di una vela all’orizzonte, ahimè troppo lontana, la vela della zattera che rigonfia allontana l’imbarcazione di fortuna dalla salvezza possono essere assunti a teoria paradigmatica di una verità che viene via via allontanata da inquirenti ignavi. Il volto sfigurato di Pasolini sembra coperto dal belletto, ma non stiamo parlando di terra di cromo, di cinabro, di rosso carminio ma di sangue, di fango, di olio motore che condirono la sua passione riportandoci agli incubi e alla visionarietà di Joel Peter Witkin.

E anche la foto che riproduciamo, per i messaggi che invia, diventa iconica. Riaffiora Nicolino Selis, riaffiora Massimo Barbieri, uno della mala contiguo alla Banda divenuto inaffidabile a causa della sua tossicodipendenza ed eliminato da Danilo Abbruciati in seguito ad uno sgarbo che quello gli aveva fatto e al tentativo di omicidio che lo stesso Barbieri aveva compiuto sparando ad Abbruciati da una moto in corsa. E c’è poi Maurizio Abbatino. Il suo volto attento guarda in direzione del cadavere. Il volto di Barbieri si staglia tra un poliziotto in divisa e uno in borghese come se sbirciasse, anche lui, alla volta del corpo di Pasolini ricoperto dal sudario mentre Selis, in terza posizione, è ripreso di profilo e sta sorridendo, ignoriamo a chi e con chi.

Selis vive ad Ostia, la sua presenza potrebbe essere resa plausibile dal clangore che la morte dello scrittore sta via via producendo: da dove abita all’Idroscalo si va a piedi. Il 2 novembre è un giorno festivo e quella morte diventa l’occasione della festa, una specie di attrazione da circo Barnum. Abbatino no, lui non vive ad Ostia ma alla Magliana. La foto è stata scattata nella forchetta temporale che va dalle 9 alle 10, minuto più minuto meno. Non esistono ancora telefoni cellulari; la Polizia comincerà ad arrivare poco prima delle 7. Chi avverte Abbatino -e perché?- di portarsi all’Idroscalo? È quanto meno curioso che due dei protagonisti della Banda della Magliana, due anni prima della costituzione ‘ufficiale’ della Bandaccia, si ritrovino insieme in quel contesto e in quel frangente. Per non parlare di Barbieri che, anche lui, avrà a che fare negli anni a venire con la banda. Inoltre, c’è una suggestione da sottolineare. Al netto delle menzogne che Pelosi ha propalato da quando è rimasto invischiato in questa storia, al netto della ritrattazione sulla presenza di siciliani che si esprimevano in vernacolo («jarrusu»,ricordate?), non ha mai negato la presenza sul luogo del delitto di un uomo corpulento e con la barba, lo stesso che lo avrebbe allontanato a forza dal campo visivo. Questo farebbe pensare a Danilo Abbruciati. Abbruciati collabora con la Banda dei Marsigliesi, è verosimilmente già in contatto con Barbieri, è uomo di coraggio, solito ad azioni fuori degli schemi come l’attentato a Rosone finito male. Abbiamo parlato di suggestioni, il condizionale è d’obbligo. Ma le tessere del mosaico combacerebbero.

Proviamo a dimostrare che se personaggi così variegati eppure legati in più di un’occasione a filo doppio per ‘commesse’ le più disparate e che travalicavano e il dato ideologico e l’appartenenza di scuderia, non si peritano di commettere reati e delitti al di fuori del proprio mondo di appartenenza e di interessi, non paia peregrino che tali figure si acconcino ad eliminare uno scrittore del livello di Pasolini, non per ferale belluinità o idiosincrasia per il ‘diverso’, ma comandati e mossi da un committente superiore con il quale sono collusi in un rapporto quasi simbiotico di do ut des. Non vogliamo arrivare, nel ragionamento, ad una conclusione assiomatica quanto dimostrare che questa evenienza non è assolutamente estranea alla figura dell’assioma. Se Concutelli o Dalle Chiaie o Bergamelli uccidono Bernardo Leighton, se Antonio Mancini riferisce della progettazione di un attentato al giudice Imposimato, se Danilo Abbruciati senza mettere al corrente i suoi sodali si trasferisce a Milano per eliminare il Direttore Generale del Banco Ambrosiano Roberto Rosone, verosimilmente su commessa di Roberto Calvi, se Enrico De Pedis otterrà l’onore di essere sepolto nella Basilica di Sant’Apollinare con la risibile motivazione del bene che avrebbe fatto ai poveri che deambulano nel perimetro della chiesa, pronubo il cardinal Poletti, non è assolutamente estraneo alla Banda o, meglio, ad elementi della costituenda tale, di portare a termine il disegno di eliminare un intellettuale di tale rilevanza, per costoro semplice pedina di scambio in un nefando gioco di favori e protezioni. Abbiamo fornito al lettore degli elementi di riflessione, non abbiamo asserito alcuna verità ma riteniamo si possa e si debba ripartire dal perimetro di questo documento fotografico per fare luce sull’assassinio.

Sono sette i sopravvissuti della Banda, a parte Fabiola Moretti: Maurizio Abbatino, Massimo Carminati, Marcello Colafigli, Renzo Danesi, Ernesto Diotallevi, Antonio Mancini, Raffaele Pernasetti. Alcuni si sono rifatti una vita, altri debbono regolare ancora conti con la giustizia, Colafigli sta scontando gli ultimi scampoli di pena. Sono come animali feriti, certo, il lungo trascorrere del tempo cambia ottiche e prospettive. Al netto dell’aspetto più granguignolesco delle vicende di cui furono protagonisti quelli della Banda, le ammazzate eclatanti, il sangue, la coca di cui ci si serviva attingendo con il misurino nel fustino del detersivo, le orge con le attrici famose che facevano la fila per un amplesso con il bandito, ritenere questi individui come delinquenti comuni sarebbe un errore marchiano e fuorviante. Essi costituiscono una sorta di tessuto connettivo, una specie di stele di Rosetta atta alla decrittazione di fenomeni e avvenimenti degli anni che vanno, orientativamente, dal ’73 al ’90. La Bandaccia, come veniva chiamata affettuosamente dai suoi componenti, non può essere definita superficialmente un’agenzia criminale. Essa attraversa la nostra storia recente svolgendo una funzione di collegamento tra i Servizi segreti, il Vaticano, il potere politico, esponenti di primo piano della destra eversiva, il mondo della finanza, le mafie tutte. Il rispetto assoluto di cui godevano i suoi partecipanti, la capacità incredibile di controllo del territorio, la consuetudine con gli apparati dello Stato, ne facevano una sorta di factory la quale realizzava progetti criminali in leasing ad altissimo livello, non transeunti o contingenti.

I ‘sommersi e i salvati’ della Banda, gli assenti e i superstiti conoscevano e conoscono perfettamente, a mio avviso, e al di là della loro compromissione o meno, i contorni di un delitto di Stato quale è stato quello di Pasolini.

Massimo Carminati racchiude in sé segreti ancora non rivelati. La sua carcerazione non è semplicemente propedeutica al processo che si celebrerà in novembre quanto alla gestione dei segreti di cui sopra, in una pianificazione ragionieristica del dare e dell’avere. Riteniamo che la pena che gli verrà comminata non sarà superiore ai 5 anni. E, dopo, si comporterà da detenuto modello con tutto ciò che ne consegue. Perché se il vaso di Pandora venisse scoperchiato, il sistema Italia si sgretolerebbe in barba alla sicumera del renzismo. Cui prodest? verrebbe fatto di domandarci. Rispondere alla domanda equivarrebbe a risolvere l’omicidio Pasolini.