Credo che fu Giancarlo Pajetta ad affibbiarle quel nome: «legge truffa». Altri sostiene che fu Piero Calamandrei. Parlo della proposta di legge elettorale maggioritaria, che Mario Scelba, ministro degli Interni del terzo gabinetto De Gasperi, presentò alla Camera dei deputati a fine ottobre del 1952.

In ogni modo noi dell’Unità ci impadronimmo di quel nome, e lo agitammo testardamente nella lunga e durissima campagna elettorale, che si sviluppò – come si diceva allora – «nel Parlamento e nel Paese», sino al 7 giugno del 1953, giorno del voto. E quel nome le rimase appiccicato. Finì per diventare di uso corrente anche su giornali dello schieramento governativo. Era una legge che anticipava tante cose delle omelie attuali a favore del premio di maggioranza e contro il criterio proporzionale, a parte il fatto che nel ricorso al criterio maggioritario essa era particolarmente indecente: alla coalizione vincitrice (…) regalava un premio di maggioranza esorbitante: se essa coalizione raggiungeva il 50,01% dei voti si vedeva assegnati il 65% dei seggi.

Ed era un premio al tempo stesso generoso e torbido: perché poteva portare la Dc a superare da sola la maggioranza assoluta dei seggi, e perché poneva una mina sotto uno dei paletti posti a garanzia della Costituzione: la possibilità del ricorso al referendum popolare, in caso di un processo di revisione. E la rigidezza del sistema costituzionale era stata una delle garanzie che consapevolmente i cattolici e la sinistra si erano date reciprocamente in quella fine del ’47, quando già la spaccatura del mondo uscito dalla vittoria sul nazismo era in atto.

La cosa curiosa è che quel modulo maggioritario – esaltato e giustificato fra l’altro come strumento per semplificare e accelerare il lavoro legislativo e di governo – lasciava in piedi un edificio parlamentare assurdamente barocco: due Camere con poteri assolutamente uguali e un numero di parlamentari che ascendeva al migliaio: una selva, che portava a un lungo, estenuante vai e vieni delle proposte di legge dall’uno all’altro ramo del Parlamento, e quindi a tempi assurdi per l’approvazione di una legge, oltre che a procedure e a patteggiamenti sfibranti. Dunque, e senza dubbio, un sistema di regole pletorico, il quale sgorgava per un lato dall’umiliazione che il Parlamento aveva subito sotto la dittatura fascista, e per un altro verso dal desiderio dei due schieramenti parlamentari protagonisti – il blocco democristiano e lo schieramento socialcomunista – di assicurarsi posizioni possibili di resistenza in caso di sconfitta.

(…) Non si trattava di decidere se e come avere un po’ più o un po’ meno di parlamentari, né solo la funzionalità o meno di alcune tecniche di selezione politica. Fu in dubbio la forma della politica. E noi avvertimmo pesantemente che combattevamo non per qualche deputato in più o in meno, ma sul volto e i poteri dei partiti e del Parlamento, questi modi dell’agire politico che il movimento operaio aveva in parte ereditato, ma anche reinventato e trasformato nel corso di un secolo.

Lo facemmo trascinati da due impulsi: la memoria tragica di ciò che aveva significato per l’Italia e per l’Europa prima la crisi, e poi il soffocamento di quelle forme politiche, e la coscienza sofferta, dolorosamente maturata del valore che la democrazia politica aveva nel processo di emancipazione. Che poi questo facesse a pugni con lo stalinismo è vero. Eppure qui emergeva ormai una differenza con l’Urss, cresciuta e depositata nei gravi anni della lotta clandestina. E fu frettoloso e sommario pensare che noi sinistra italiana, avendo riconquistato da pochissimo – dopo una dittatura ventennale e un conflitto catastrofico – la forma parlamentare, la lasciassimo franare senza una dura lotta. Ed era stupido pensare che noi ragionassimo in modo fanciullesco sull’insurrezione (neppure Secchia lo faceva).

Se vale una testimonianza, e se vado ai miei pensieri di quegli anni, direi che nella mia limitata esperienza io se mai pensavo a una possibile insorgenza come risposta a un «pogrom», all’attacco armato che veniva dall’avversario. E – certo – quando ci furono De Lorenzo e il tintinnar di sciabole di cui parlò Pietro Nenni, quell’assillo ritornava nella nostra mente. Non so dire quante volte, in quegli anni, fui avvertito da Botteghe Oscure che per prudenza era meglio dormire fuori casa.
In ogni modo già nell’estate del 1952 s’incominciò a fiutare la bufera che s’annunciava: l’8 luglio De Gasperi in una intervista al Messaggero invocava uno «Stato forte», con un linguaggio persino inusuale sulla sua bocca. Ho il ricordo preciso di un dialogo con Togliatti, in cui gli chiedevo consiglio circa il modo di commentare quell’intervista così pesante sull’Unità. Come spesso accadeva, disse: «Fate voi» (poi all’indomani mattina, se mai, venivano i bigliettini di critica). Ma storse la bocca, non nascose il suo pessimismo. Poche settimane dopo Scelba presentava al Senato il disegno di legge. Cominciava lo scontro.

La mossa degasperiana in qualche modo ci metteva con le spalle al muro. Ci costringeva ad una lotta disperata.

(…) Del resto, in quel finire del 1952, quando stava per concludersi la fase di lotta a Montecitorio, e Secchia in una discussione avanzò l’ipotesi dell’Aventino, anche quella strada fu seccamente scartata da Togliatti: non solo per i cattivi ricordi che essa evocava, ma perché noi avevamo in mente un Parlamento attivo sino all’ultimo minuto possibile, sponda sino all’ultimo alla mobilitazione delle masse; appunto: specchio e animatore della lotta nel Paese. Ambedue le cose. E la «legge truffa» era grave per noi anche e molto perché spezzava quella comunicazione.

(…) Questo spiega la determinazione, ma anche la saggezza con cui fu condotta la lotta. Fu adoperata con ostinazione, ma anche con misura, l’arma dell’ostruzionismo. Quando alla Camera furono chiaramente consumati gli spazi e anche le sottigliezze consentiti da quella forma di lotta, si presentò la domanda pesante sul che fare. E necessariamente ci si chiese se bisognasse abbandonare quelle aule e quel palazzo: e ritirarsi sull’Aventino, come era stato negli anni Venti di fronte alla legge Acerbo, con cui Mussolini metteva la museruola alle Camere. Fu Secchia che pose la domanda se non bisognasse fare come trent’anni prima. La risposta fu no; e non soltanto perché quel nome – Aventino – ricordava una sconfitta storica e Gramsci dall’Aventino era tornato solitario a battersi in Parlamento, ma perché quella nostra lotta del’52-’53 chiaramente puntava a una combinazione di forme di lotta, dai banchi dell’aula parlamentare testardamente guardava ai movimenti nel Paese.
Non solo ai comizi, alle lotte di strada. Avevamo in mente la rete delle assemblee. Non era un’invenzione del momento. Era la necessità testarda con cui operavamo nella rete dei consigli comunali, come nelle stanze delle case del Popolo, e nelle fabbriche in cui ancora riuscivamo ad arrivare – insomma i luoghi e le pratiche, con cui sperimentavamo la costruzione di un partito di massa. Tutto stava nel filo che poteva (oppure no) stabilirsi fra l’aula parlamentare e il territorio. (…) In ogni modo il lungo, ma calcolato, misurato ostruzionismo che tenne aperta la lotta in Parlamento (tra Senato e Camera) per circa un lungo semestre appare assurdo e insensato, se non si afferrano il suo combinarsi e il prolungarsi nel territorio.

Al voto sulla «legge truffa» il 7 giugno del ’53 partecipò quasi il 94% degli elettori. È ridicolo spiegare esiti simili solo con la pressione esercitata dagli apparati.

Ci fu anche una certa teatralità nelle vicende di quei giorni. Ma forse era obbligata. Ho nitido nella mente – come fosse ora – un episodio che mi coinvolse. Eravamo in dicembre, al termine di una giornata convulsa alla Camera, quando ormai il dibattito stava avviandosi verso la fine. C’era l’aria aspra e febbrile delle giornate conclusive: l’aula di Montecitorio era gremita come un uovo perché c’erano votazioni.

Mi chiamarono dal giornale (dirigevo allora l’Unità): il centro della città era presidiato dalla polizia e al Tritone c’erano stati scontri gravi con i manifestanti. La polizia aveva picchiato selvaggiamente. Informai di corsa Togliatti. Mi disse: va’ a vedere.
Uscii. Piazza Colonna era deserta, calata in un buio fitto, dove si scorgevano appena le sagome delle camionette della polizia. Mi fermarono. Tirai fuori il tesserino di deputato e proseguii. Risalendo il Tritone cominciarono i caroselli delle macchine dei poliziotti. Sembravano girare a vuoto, perché sulla salita verso piazza Barberini c’era un deserto. Salvo che ogni tanto dai vicoli irrompevano gruppi. Lanciavano grida e si ritiravano. Come seppi dopo, non erano molti. Già c’erano stati nei giorni passati scontri durissimi, cortei rabbiosi. Affiorava una certa stanchezza. Consapevoli delle deboli forze, i compagni avevano adottato la tattica di irrompere dai vicoli e poi ritirarsi. La polizia era esasperata, e quando acciuffava un manipolo picchiava selvaggiamente, con insulti e una violenza che oggi apparirebbe impossibile, ma che allora noi conoscevamo bene. Al crocevia del Tritone, proprio sotto le stanze del Messaggero, una squadra di polizia era riuscita a stringere un piccolo nucleo di manifestanti e menava duro. Mi intromisi protestando. A domanda, tirai fuori come risposta il tesserino di deputato. Il poliziotto furente che mi stava di fronte rispose con una secca randellata sulla mia testa. Non era nulla di grave. Ma il manganello toccò un punto del cuoio capelluto molto irrorato, quindi il sangue veniva giù copiosamente. Tra le urla e i fischi, mentre una compagna gentile con un fazzoletto cercava di fermare il sangue sulla mia zucca, e stretto da un piccolo gruppo di manifestanti, mi mossi per tornare a Montecitorio. In aula stava parlando un compagno: aspettai in Transatlantico che finisse, rinviando a più tardi il medico della Camera accorso premurosamente. Poi entrai in aula con quel fazzoletto insanguinato sulla fronte a raccontare ciò che accadeva in quella cupa notte romana. Questi erano i riti, i modi anche elementari con cui tentavamo di mandare messaggi al Paese. (…)

Assistetti all’ultimo scontro in Parlamento da una tribuna del Senato, nel marzo del ’53. Non fu una seduta: fu solo scontro fisico. Mentre il presidente Ruini proclamava i risultati del voto volò una tavoletta che lo colpì alla fronte. Contemporaneamente vidi il senatore Negarville – un compagno incline irresistibilmente alla sottigliezza ironica e ai ragionamenti più disincantati anche sulle cose sacre del comunismo – arrampicarsi sui bordi della tribuna presidenziale con una furia gattesca, mentre Ruini si precipitava verso l’uscita, e l’emiciclo bolliva. Tutto era assurdo e naturale. E del resto nessuno gridò allo scandalo. Il tema era entrato nella mente del Paese.

Al 7 giugno, dopo una frenetica campagna elettorale, votò circa il 94% degli elettori. Si potrebbe dire: tutti gli iscritti alle liste. Era quasi incredibile.

Ho nella mente la passione della notte tra il lunedì e il martedì, mentre si incrociavano – con alti e bassi di delusioni e speranze – i dati che giungevano dal Viminale e quelli che venivano dai compagni delle federazioni e da Botteghe Oscure, dove lavorava, silenziosissimo e preciso, Celso Ghini, un compagno che aveva vissuta la dura scuola dell’emigrazione politica e poi (le singolari metamorfosi!) era diventato quasi imbattibile nel vaglio e nello studio dei dati elettorali.

Circa alle sei del mattino del martedì 9 giugno, dopo una notte vissuta tutta al giornale, mi recai a Botteghe Oscure, per annunciare a Togliatti che il Partito comunista aveva varcato la soglia dei sei milioni di voti. Togliatti, dalla cui bocca non avevo mai sentito una parola scurrile, scattò in un gesto rivolto all’avversario, incrociando il braccio sinistro sul braccio destro. Quel voto voleva dire un radicamento, difficile ormai da cancellare.

Alle 10 di quel martedì mattina ero in tipografia a preparare l’edizione straordinaria del giornale (a me, più di tutto, mi piaceva quel lavoro dove – fra tagli e spostamenti di righe – in dialogo con il tipografo impaginatore, si vedeva nascere il volto vero del giornale). Sentii a un tratto levarsi un urlo lungo nella sala. Non so chi aveva dato la notizia delle dichiarazioni di Scelba: per 57.000 voti la «legge truffa» non era passata.

(…) Naturalmente il corso delle cose non si vide subito. Anzi, tramontata malinconicamente la stella di De Gasperi, emerse a un certo punto un fazioso governo Scelba-Saragat, dove quella congiunzione di nomi sembrava una riottosa chiusura: stavano insieme l’uomo degli eccidi e della messa al bando dei socialcomunisti, e l’altra figura che nello scatenarsi della guerra fredda aveva spezzato la solidarietà fra le forze di sinistra sotto attacco e aveva aiutato De Gasperi nella operazione di rottura. Ma fu un fuoco effimero. Consumata la stella di De Gasperi, nonostante le apparenze, con quel voto cruciale del 7 giugno, seppure sotterraneamente, era cominciata in effetti la marcia di avvicinamento al centrosinistra. (…) Nenni era l’alleato possibile. Di più la Dc non voleva, e forse non poteva.

(…) Mentre da noi era in corso lo scontro sulla «legge-truffa», a Mosca il 5 marzo moriva Giuseppe Stalin. Ricordo il titolo enorme che feci sull’Unità per annunciare quella morte, e il lutto di tanti comunisti e socialisti in Italia. Non immaginavamo le nuove fratture e speranze, a cui quella morte ci avrebbe trascinato.

Cominciava la seconda metà del Novecento, con accelerazioni incredibili. Anche l’Italia dovette mettersi a correre.