Si intitola Le dita tagliate (pp. 323, euro 15) ed è il nuovo generoso libro di Paola Tabet pubblicato per Ediesse nella collana sessismoerazzismo, diretta da Lea Melandri, Isabella Peretti, Ambra Pirri e Stefania Vulterini. Etnologa, antropologa e femminista, Tabet riprende i temi di ricerca che la caratterizzano dagli anni ’70 a oggi.
Il titolo del volume attiene a una pratica presso i Dugum Dani, in Nuova Guinea, secondo cui alle bambine vengono amputate alcune dita delle mani in segno di offerta durante le cerimonie funebri. Questa mutilazione diventa per Tabet motivo di riflessione più ampia intorno alle forme coercitive che fondano le società patriarcali, da quelle più semplici di caccia e raccolta a quelle capitalistiche. Centrale nella sua ricerca è da sempre l’analisi del rapporto sociale tra i sessi («un rapporto di classe»), le condizioni della dominazione maschile e dei mezzi con cui tale dominio si edifica e conserva. Tutto ciò la colloca accanto al gruppo femminista materialista nato intorno alla rivista Questions Féministes (in particolare Christine Delphy, Nicole-Claude Mathieu, Colette Guillaumin e Monique Wittig) con cui entra in contatto a Parigi nel 1978. Negli stessi anni comincia a occuparsi della divisione sessuale del lavoro e dell’utilizzo dei vari strumenti, rivolgendosi in particolare alle società di caccia e raccolta e indagando la gestione o meno dei mezzi di produzione.
Il fuoco del primo capitolo è sullo scambio sessuo-economico inteso come gestione sociale della sessualità. Confortata da una solida documentazione etno-antropologica e dalle numerose interviste sul campo (importanti sono state quelle effettuate in Africa, in particolare in Niger), Tabet arriva a segnalare «la grande beffa» (titolo di un suo volume del 2004) insita nello scambio sessuo-economico non prima di averne definito il segno: anzitutto l’idea dello scambio investe la prostituzione così come il matrimonio e i cosiddetti rapporti amorosi, cioè «l’insieme delle relazioni tra uomini e donne che implicano una transazione economica». Transazione quest’ultima che prevede la fornitura di servizi (variamente dal sessuale al domestico) da parte delle donne, e un compenso (che sia o meno quantificabile in denaro, status sociale, prestigio e regali) offerto dagli uomini.
Il punto fondamentale su cui si è basato il dominio degli uomini sulle donne è, secondo la studiosa, la preclusione e il mancato accesso ad alcune risorse. Chiamando in causa Malinowski, Mauss e Levi-Strauss, gli esempi riportati si riferiscono alle popolazioni del Mali, della Nuova Guinea, delle isole Trobriand e di molte altre parti del mondo visitato. Il fatto che Tabet si riferisca a paesi non occidentali non significa che il fenomeno sessuo-economico sia assente dalle più note società capitalistiche. Il problema sono proprio le relazioni tra uomini e donne, e affermando ciò esclude consapevolmente una serie non trascurabile di cose.
L’oggetto di riflessione è, infatti, la gestione sociale dello scambio e non la sessualità in sé, per esempio, il desiderio, le pratiche di conflitto o la relazione tra donne e quella tra uomini. Dal Ghana all’Etiopia, dall’Uganda al Kenya, le indagini sul campo rafforzano invece il suo osservatorio secondo cui molte sono state le occorrenze in cui si è verificato il passaggio dal dono alla tariffa. Pagine interessanti sono dedicate al tema controverso del continuum perimetrato appunto da prostituzione e matrimonio nello scambio sessuo-economico. Difficile dare un significato universale di prostituzione, ne andrebbero contestualizzati i dati secondo le diverse strutture sociali e le risorse materiali. Per questa ragione, quando Tabet parla di prostituzione si riferisce in generale a definizioni politiche relative a un’area di rapporti tra i sessi. È pur vero che in questi anni molte sono state per Tabet le occasioni di confronto con esperienze di donne, comprese – per quanto riguarda l’Italia – quelle di Carla Corso e Pia Covre e il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute.
Il continuum degli scambi prevede certo variazioni e diversità eppure, nota Tabet, vi sono ancora delle riluttanze – soprattutto nelle società occidentali – a soffermarsi sullo «scambio» nelle relazioni «legittime». In uno scenario simile sono da tenere presenti le forme violente alle quali sono state sottoposte le donne, non solo in Africa ma – per esempio – in tutti i luoghi di guerra. Dallo stupro all’infibulazione, queste forme rappresentano un altro tassello della dominazione maschile. In tale direzione vanno intese le migrazioni di donne che dai villaggi si dirigono alle città; una forza intesa come ricerca di autonomia che consente loro di smarcarsi dall’appropriazione privata del proprio corpo e della propria sessualità. Storicamente la modalità repressiva per normare la trasgressione delle donne «fuorilegge» non si è fatta attendere; dai reclutamenti delle prostitute ai riformatori per la «riabilitazione» forzata delle disobbedienti. Nonostante ciò, la storia delle femmes libres e delle free women, delle prostitute d’Africa con le quali Tabet ha intrattenuto numerose conversazioni, è pur sempre «la storia, difficile e complessa, di una resistenza».
«Scrivi presto, lavora, prima che anche a te taglino le dita». È quel che Valeria Bertolucci Pizzorusso raccomanda all’amica Paola Tabet nel 1980. L’invito si è trasformato in una promessa mantenuta con coraggio e gratitudine, per raccontare l’orizzonte difficile e crudele ancora presente in alcuni luoghi del mondo. E per dire che le dita tagliate appartengono al distinguo doveroso secondo lo spettro materiale – e aggiungerei simbolico – singolare e collettivo delle vite di ciascuna. Una questione che si intreccia altrettanto saldamente alla libertà, quando la si può scegliere, agire e desiderare fortemente come ha fatto Paola Tabet nel corso della sua vita, personale e politica.