Forse le braccia sono eccessivamente lunghe rispetto al corpo armonioso. E poi la sproporzione è accentuata dalle grandi mani. La sinistra, per un suo tono bruno rossastro, risalta troppo sul colore chiaro del carnato: appoggiata al fianco impedisce che un velo leggero scivoli del tutto dall’inguine, mentre ora, a pena e solo in parte, lo nasconde. La destra, al polso due sottili bracciali, trattiene un panno che lascia in vista la coscia della giovane donna.

Lei si è scoperta il seno quando ha avvolto in su la maglietta prugna dalle maniche corte. In piedi, di fronte, nella sua intatta nudità la donna ti guarda. Due bande di capelli scuri, gli occhi neri, i pomelli rosei, la bocca rossa. E rossi i due cerchi degli orecchini. Mostra in volto una sua riposta sicurezza. Più che un’aria di sfida rivolta a te che trascorri con lo sguardo il suo corpo, quella posa, che ti poteva sembrare sfrontata, ti appare ora non una provocazione, ma l’ostentazione di una certezza. La donna esibisce senza rischi la sua nudità. Non è disinvoltura. Forse è la baldanza di chi nulla ha da temere.

La giovane è protetta, è difesa. Una scimmia robusta la abbraccia sopra il ginocchio sinistro teneramente, con la sua zampa pelosa. Appoggia il muso alla rotondità della coscia, un muso ornato da una barba bianca che risalta nel contrasto con il suo manto scuro. La scimmia occupa la posizione che in certe tavole d’altare tiene il devoto donatore che ha commissionato l’opera all’artista. Devota alla giovane la scimmia, sembra si possa dire senza ombra alcuna di dubbio.

Ma che genere di devozione è la sua? Esegue rapida ogni ordine che le impartisca la bella ignuda o della bella ignuda è l’inflessibile sorvegliante che la controlla, la stringe in una vigilanza ossessiva? O è la devozione che sboccia nella complicità, nell’intesa segreta reciprocamente nutrita? Certo, la perentoria carica erotica dell’opera si dipana, si accende o stempera in narrative molteplici che ora si intrecciano, ora corrono parallele.

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Primo Conti dipinge «La zingara» (olio su tela, cm.135×85) nel 1934. È esposta al Palazzo Mediceo di Seravezza alla mostra «Primo Conti. Un enfant prodige all’alba del Novecento», curata da Nadia Marchioni. Ma il visitatore, mentre non tarderà a riconoscere il bel volto della giovane, la troverà rivestita d’un’ampia gonna che riprende i toni malva della maglietta, le braccia ora coperte da maniche aderenti fino ai polsi. E a quella mano destra che teneva un tempo in bilico la vaga garza leggera, ora sta appesa la cinghia d’una ingente fisarmonica. La perturbante scimmia non c’è più. Con lei è scomparsa ogni allusione, la trama nascente che si infittiva di evocazioni, cenni, fantasie e scaturiva entro di noi intenti a scrutare, sotto gli occhi della bella ignuda, le mosse della bestia bruna. Ogni tensione è caduta: quel seno e quel ventre nudi appaiono una incongruità. Avverti quel torso femminile come un residuo, un frammento che apparteneva a un racconto di cui si è perduto l’intreccio, la venustà d’una statua antica mutila, un reperto sovrapposto. È che, al momento di inviare «La zingara» alla XIX Biennale di Venezia, Primo Conti ebbe un ripensamento. Cancellò l’inquietudine, il turbamento, l’eccitazione. Dipinse con correttezza geometrica il parallelepipedo della fisarmonica, le misure prese con il righello per coprire a puntino la superficie del quadro che accoglieva la scimmia.

La ritroviamo oggi, ancora enigmaticamente avvinta alla sua bella, in una fotografia che riproduce «La zingara» nella sua prima versione. Un capolavoro di Primo Conti in bianco e nero.