La bellezza salverà il mondo», dice il principe Miskin, l’intramontabile Idiota di Fëdor Dostoevskij. A quest’ultimo, «forse la filosofia ha insegnato poco, ma la filosofia ha molto da imparare da lui», come ebbe a dire il filosofo avversario del bolscevismo Nikolaj Berdiaev, che subì il fascino intellettuale del «genio crudele», caratteristico del grande scrittore russo. Ma di quale bellezza si parla qui? Appena si cerca di scavare un poco nel significato di questa parola e di questa frase – come hanno fatto molti eccellenti critici – essa si configura sempre più come un enigma irrisolto.

Anche nel romanzo, infatti, Ippolit – e con lui Dostoevskij – domanda: «Il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza… Quale Bellezza salverà il mondo?». Già quale e perché, dal momento che nello stesso romanzo l’autore fa dire al principe Miskin, a proposito di Aglaja: «È difficile giudicare la bellezza; non mi ci sono ancora preparato. È un enigma». Non facile da sciogliere, almeno in ambito dostoevskiano, dal momento che altrove, e forse nel più grande dei suoi romanzi, certamente in quello filosoficamente più significativo, I fratelli Karamazov, Mitja afferma che: «La bellezza è una cosa tremenda e orribile».

La bellezza è, quindi, per sua natura ambigua. Come disse il critico Evdomikov, «ha in sé stessa una potenza salvatrice, eppure diventa ambigua, ha bisogno di essere salvata e protetta». Né l’ambiguità si risolve, se accostiamo, come è naturale fare per il Dostoevskij de L’Idiota, il concetto del bello a quello del bene. L’idiota è il buono («un uomo infinitamente buono», dirà di lui l’autore in una delle sue lettere), per questo ciò che afferma ha la forza della intuizione profetica. Non è velato da interessi né secondi fini. Ci parla come un libro aperto, come un’opera d’arte. Appunto.

L’angoscia da esorcizzare
Roberto Gramiccia (Arte e Potere. Il mondo salverà la bellezza?, con la collaborazione di Diana Cardaci, prefazione di Alberto Burgio, postfazione di Claudio Strinati, Ediesse, pp. 219, euro 13) inverte il significato di questa enigmatica frase, problematizzandola con il punto interrogativo. Si tratta di un lungo e denso percorso attraverso la storia della relazione fra l’arte e il potere, anzi fra le varie forme che il potere ha acquisito lungo la storia dell’umanità.
Si parte da quando il potere non esisteva neppure, mancandone gli essenziali presupposti, quindi dall’arte primitiva dominata e motivata dal sollievo dall’angoscia della morte, per giungere all’arte e all’epoca contemporanee dove, al contrario, si profila la «morte tendenziale» dell’arte. Una morte che ha ragioni e cause ben diverse, è bene precisarlo subito, da quella hegeliana che avverrebbe grazie al superamento effettuato nei suoi confronti dalla religione prima e dalla filosofia poi, essendo solo quest’ultima pienamente in grado di manifestare l’Assoluto.

Gramiccia si guarda bene dallo stabilire, in questa lunga cavalcata attraverso i secoli, alcun legame di meccanica dipendenza fra potere e forme artistiche. Ha ben presente, e lo dichiara esplicitamente, il monito marxiano su questo punto.
Se – scrive l’autore – «la stagione della sua (dell’arte) totale autonomia è da circoscrivere a un tempo preistorico» – mentre tutto ciò che segue è un continuo corpo a corpo tra arte e potere, la soggezione dell’arte al potere non è mai totale e le sue produzioni hanno longevità ben maggiori delle forme di potere storicamente date. «Per l’arte – scrive Marx ne L’ideologia tedesca – è noto che determinati suoi periodi di fioritura non stanno assolutamente in rapporto con lo sviluppo generale della società, né quindi con la base materiale … della sua organizzazione», ci ricorda Alberto Burgio nella sua densa prefazione.

Insonnia creativa
Va da sé che Gramiccia non si scandalizza se molte opere d’arte hanno preso vita a partire da una diretta committenza. Secoli di capolavori che ancora ammiriamo – e ci auguriamo di continuare a farlo – hanno questa origine. La committenza, anche quando è circostanziata e dettagliata, non è mai stata in grado di inibire la libertà creatrice dell’artista, neppure di mortificarla. Non solo: la storia artistica mondiale è piena di esempi, a volte davvero curiosi, di eterogenesi dei fini rispetto ai prodotti artistici. Saltando in un altro campo rispetto a quello preso in osservazione da Gramiccia, cioè quello musicale, chi non ricorda che le splendide Variazioni Goldberg traggono origine da un lavoro commissionato a Bach, in cambio di un calice ricolmo di cento luigi d’oro, che doveva servire a ingannare l’insonnia del Conte Carl von Keyserling e che il povero Goldberg doveva eseguire nella stanza accanto a quella dell’insonne?

Il problema cambia di aspetto e di natura, quando il potere assume contorni più complessi. Diventa meno visibile, ma più pervasivo. Si scinde come un’idra a più teste in potere politico, economico, mediatico, in bioptere. Qui avviene qualcosa di profondamente diverso rispetto alle epoche passate. Il contrario di quello che aveva analizzato Benjamin nel suo celebre scritto L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: ove la perdita dell’aura che avvolge la misteriosa singolarità della creazione artistica diventa – ed effettivamente è – un fatto di avvicinamento alla fruizione di un più largo pubblico, un grande fatto democratico insomma. Ma ecco scattare una sorta di rivoluzione passiva da parte del moderno grande capitale.

La merce è ripetitiva
Il suo obiettivo non è più quello di assoggettare l’artista – cosa rivelatasi vana -, ma di condizionare, guidare e creare il gusto estetico attraverso un gigantesco apparato che va dalla produzione artistica alla sua commercializzazione, dalla fagocitazione della critica alla creazione di modelli seriali che cancellano i confini fra arte, moda, design. Il che può avvenire destinando in anticipo alcuni prodotti a un pubblico di nicchia, ma dalle grandi capacità acquirenti, ed altri ad un gusto popolare impoverito ed acritico.
È qui che si perde il senso del bello, che è indubbiamente il fine dell’arte e dell’artista. Certamente , ma non è questo il punto, esso non va più ricercato solamente nella imitazione della natura, come è stato per secoli, pur con forme assai differenti fra loro. Il giovane Alexander Kojeve scriveva a proposito dell’arte dello zio Vassilij Kandinskji – in un breve saggio alquanto agiografico – che «per secoli l’umanità ha saputo produrre solo quadri ‘rappresentativi’, vale a dire soggettivi e astratti. Solo nel XX secolo venne dipinto in Europa il primo quadro oggettivo e concreto, vale a dire il primo quadro non rappresentativo». In altre parole, l’artista crea il bello non astraendolo dalla natura, ma creandolo direttamente dall’in-esistente.
Ora però siamo giunti a un degrado programmato del gusto estetico per favorire la mercificazione del presunto prodotto artistico e la sua commercializzazione.
Non si tratta per Gramiccia di contrapporre una modalità pittorica ad un’altra, una scuola a una corrente. In ogni aspetto della produzione artistica, lo studioso vede restringersi l’area del «bello» ed allargarsi quella del volgare e del ripetitivo. Né basta richiamarsi alla condizione popolare per riscattare la produzione artistica. Esemplare è, al riguardo, la disamina non certo compiacente che Gramiccia fa della cosiddetta Arte Povera.
C’è ancora speranza? L’autore volge al pessimismo. Ma forse è eccessivo. Certamente, la rinascita dell’arte è legata a quella di un pensiero critico a tutto tondo verso il potere e il sistema esistenti. Vi è però anche nell’arte quel «residuo» che Claudio Napoleoni individuava nel sociale e che metteva in dubbio, fin dall’inizio, il trionfo definitivo del pensiero unico? Crediamo di sì. E diamo ragione a Paul Klee, quando, nelle sue lezioni al Bauhaus, ripeteva ai suoi studenti: «L’artista di oggi è più di una perfezionata macchina fotografica. Vive sulla terra, ma è anche una creatura dell’universo. Una creatura su una stella, tra le stelle».