E ora tutti guardano a Pechino e non certo senza preoccupazione. Dopo il tonfo di qualche settimana fa, che ha polverizzato in poche settimane migliaia di dollari, ieri la Borsa di Shanghai ha chiuso con un nuovo crollo, meno 8,5 per cento (Shenzhen ha perso il 7 per cento). Si tratta del crollo più grande della borsa asiatica che rischia di trascinare con sé altri listini (quelli europei) e i cui effetti futuri sono ancora tutti da valutare.

Secondo gli esperti (che però non sembrano prenderci sempre quando si tratta di Cina) le cause della nuova emorragia sarebbero da riscontrare nell’andamento lento della produzione industriale, benché i dati del secondo trimestre cinese avessero confermato le attese che davano una crescita stabile al 7 per cento. Ma pare che il Pil possa diminuire e questo non avrebbe fermato le paure dei cosiddetti «piccoli azionisti» cinesi, una valanga – 90 milioni – in grado, si dice, di mutare i destini della borsa controllata dallo Stato.

Anche perché dopo la prima «botta» di due settimane fa, il governo cinese era intervenuto a suo modo, chiudendo in gran parte le contrattazioni e obbligando le aziende statali a comprare anziché vendere. Si era parlato, non a caso, di «quantitative easing alla cinese», un modo come un altro per metterci una toppa. Non erano mancate anche speculazioni politiche, che volevano un Xi Jinping particolarmente irritato, con un premier Li Keqiang appena tornato da un difficile viaggio in Europa. E a causare il capitombolo di ieri, potrebbe essere proprio il poco grado di fiducia nei confronti delle azioni che il governo ha promesso di intraprendere per bloccare il danno delle settimane scorse.

Gira con molta insistenza l’idea che il governo potrebbe tornare sui suoi passi e vedere se il mercato è in grado di riprendersi, più o meno, in autonomia. E questo avrebbe nuovamente terrorizzato il sentimento collettivo degli azionisti portando ad un nuovo crollo (il peggiore negli ultimi 8 anni). E mentre scriviamo l’effetto cinese sta pesando anche sulle borse europee (più di tutte su Milano, a meno 2,9 per cento).

Più in generale però questo doppio scivolone dimostra una cosa piuttosto chiara: la promessa della borsa cinese non si basa granché sul valore potenziale delle azioni e delle aziende quotate in borsa, quanto sul comportamento nei confronti del mercato azionario del governo centrale.