Alla Corte penale internazionale dell’Aia è in corso in questi giorni il primo processo (che la stampa internazionale non esita a definire «storico») contro un capo jihadista, Ahmed al Faqui al Mahdi, reo confesso della distruzione di 9 mausolei e di una parte della moschea di Sidi Yahia nella città maliana di Timbuctu nel 2012. Il processo, effettivamente, non ha precedenti, ma la spettacolare demolizione di santuari e monumenti è uno strumento di propaganda bellica che conta ormai numerosi episodi.

Pionieri furono i talebani nel 2001 con la distruzione delle due gigantesche statue del Buddha di Bamiyan (III e V secolo). Ma anche tra di loro la decisione non era poi stata così pacifica. Perfino al mullah Omar, ben consapevole del fatto che in Afghanistan non vi era traccia alcuna di buddismo e a nessuno sarebbe mai più venuto in mente di adorare quei due colossi, la decisione non era sembrata affatto opportuna. Forse si stava addirittura distruggendo una futura risorsa. Lo spettacolo servito all’indignazione occidentale possedeva, tuttavia, una sua attrattiva. Come avrebbe dichiarato in seguito il mullah a un giornale pakistano, quella vicenda metteva in luce il cuore di pietra degli occidentali che, indifferenti ai villaggi rasi al suolo dai bombardamenti americani, alla morte di donne, vecchi e bambini, si disperavano invece per la sorte di due statue. Dell’antica furia iconoclasta (alla quale le distruzioni di monumenti da parte dei jihadisti sono state sovente e impropriamente paragonate) non rimaneva neanche l’ombra, come, del resto, dei presunti “idolatri”. Cosicché è sul terreno della politica e della propaganda, pienamente inscritte nell’orizzonte della modernità, che il destino dei Buddha di Bamiyan fu segnato.

La terra dei credenti

Sarebbe poi toccato a Ninive e Palmyra cadere sotto i colpi di piccone e di dinamite degli uomini di Al Baghdadi. Accuratamente filmate e diffuse quelle immagini fecero il giro del mondo, suscitando l’indignazione a cui miravano. Anche in questo caso l’idolatria non era che un risibile pretesto. Tutt’al più una motivazione infantile per i più fanatici e sprovveduti. Quel potere di distruggere equivaleva piuttosto all’affermazione di un atto di proprietà: non esiste alcun «patrimonio dell’umanità», ma una terra che appartiene alla «comunità dei credenti» (esclusi, beninteso, i tiepidi e gli eretici) che possono disporne come meglio credono. Delle antiche civiltà che avevano edificato quelle città e quei monumenti, ai propagandisti del Califfato, non importava veramente nulla: le loro credenze e forme di espressione non erano più sacre a nessuno, né costituivano minaccia alcuna per la «vera fede». Ma non erano forse stati l’ «umanesimo» coloniale prima, e poi le istituzioni scientifiche tedesche, inglesi, americane, italiane, ad avere sottratto quei luoghi all’oblio, scavandoli, restaurandoli, trasportandone i frammenti nei musei? Non erano stati i viaggiatori, gli scrittori, gli studiosi europei a struggersi dinanzi alle maestose rovine? E poi le folte schiere di turisti a visitarle, fotografarle, e bearsi delle patacche archeologiche rifilate loro dagli scugnizzi locali?

Le vestigia del passato stanno evidentemente a cuore all’Occidente, che le ha prima depredate come potenza coloniale e poi accudite come cooperazione internazionale. Ma sempre rivendicando un rapporto privilegiato, una comprensione più profonda, una sensibilità più sviluppata. Tanto che quel passato stesso finiva con l’apparire come il prodotto, estraneo se non subdolamente ostile, dei suoi investigatori occidentali. Ed è solo ed esclusivamente per questa ragione che, nella strategia dei jihadisti, distruggere le testimonianze di quel passato assumeva un preciso significato. Credevano di possederle, queste vestigia, i custodi occidentali della cultura universale, apponendo un timbro dell’Unesco, ed è proprio questa pretesa che doveva essere fatta saltare clamorosamente in aria, anche al prezzo di un suicidio culturale. Con lo scopo di diffondere un preciso messaggio politico: la negazione di qualsivoglia patrimonio in comune con gli «infedeli». E dello spessore della storia di quel pezzo di mondo.
Certo non erano pochi i musulmani che amavano quei luoghi, li studiavano, ne curavano la conservazione, e ne apprezzavano la bellezza. I nazionalismi mediorientali avevano addirittura incluso le grandi civiltà del passato nella loro mitica genealogia. E la maggior parte dei cittadini siriani e irakeni considerano le distruzioni subite dal patrimonio storico e artistico come una grave perdita, una ferita e un sopruso.

La polizia jihadista

Questi sentimenti sono ancora più profondi tra i cittadini di Timbuctu, in Mali. Qui, oggetto della distruzione sono stati esclusivamente monumenti islamici, che segnano da sempre l’identità di quello che fu (tra il XIV e il XVI secolo) uno dei più importanti centri di diffusione della cultura islamica in Africa. La distruzione del patrimonio storico (la città ospita fra l’altro decine di migliaia di antichi preziosissimi manoscritti) non è, infatti, solo una rappresaglia contro l’«orientalismo» occidentale, ma anche un’arma impiegata contro tutte le correnti dell’islamismo avversate dal radicalismo wahabita che pratica una sua specifica politica di damnatio memoriae. Così, nel 2012, quando il gruppo quaedista Ansar Dine occupò il nord del Mali, al Mahdi si assunse l’incarico di demolire i mausolei, sepoltura degli antichi predicatori e interpreti del Corano, considerati protettori della città dagli abitanti di Timbuctu, ma impostori o apostati dai nuovi padroni della città.

Ahmed al Mahdi, che aveva assunto il nome di battaglia di Abu Tourab, non era un soldato, ma un intellettuale, diplomato all’istituto pedagogico della città e funzionario dell’Educazione nazionale. Durante l’occupazione quaedista gli viene affidata la «hisba», la temibile «buoncostume» del radicalismo islamico che, incaricata di cancellare ogni forma di libertà, tra le sue vittime non contava certo solo i monumenti. Ma, per il momento, al Mahdi è incriminato in base all’articolo 8.2 e IV dello Statuto di Roma che funge da fondamento alla Corte penale internazionale e sanziona la distruzione di edifici sacri e monumenti storici che non possono essere considerati obiettivi militari. Confesso e pubblicamente pentito, sfuggito ai «demoni» che, a suo dire, si erano impossessati di lui, l’ex funzionario scolastico rischia ora una lunga pena detentiva. La Corte darà voce (una sorta di «parte civile») alle vittime dell’occupazione da parte di Ansar Dine e delle conseguenti vessazioni. Si tratta di singoli cittadini e di alcune associazioni. Nonostante questo non sono mancate, in Mali, voci di protesta: perché mai al Mahdi dovrebbe rispondere al tribunale dell’Aia e non di fronte alla città dove ha commesso i suoi misfatti? Per quanto «internazionale» la Corte penale ha pur sempre sede in Europa e non si tratta di una semplice circostanza geografica.

In effetti, il «patrimonio dell’umanità» è una espressione piuttosto equivoca, più per tutto quello che esclude che non per quello che seleziona. E nel momento in cui figura come «parte lesa» in un procedimento affidato a uno specifico tribunale investito del compito di esserne il custode, gli equivoci non possono che moltiplicarsi. Del processo al Mahdi sentiremo a lungo parlare.