«Appena apro gli occhi vedo persone che si sono spente… le loro lacrime sono salate, il loro sangue è stato rubato, i loro sogni sono sbiaditi…». Ci mette il corpo insieme al cuore quando canta Farah, testa piena di riccioli e unghie rosse, i vestiti coloratissimi e la risata impertinente. Tutto o niente senza mediazioni né compromessi, è la spudoratezza dei suoi diciotto anni. Lei sa che vuole cantare col gruppo e non studiare medicina come le impone la madre, sa che vuole vivere senza paura, sa che ama Borhane, il chitarrista che scrive le sue canzoni e che la loro musica riesce a dare una voce a quello che sente nel suo Paese. Subito, adesso. Tutto o niente non ci sono geometriche strategie, c’è il corpo, la musica, la scoperta del sesso, quel desiderio che pulsa nei giovani come lei soffocati dal controllo, dalla miseria, dall’azzeramento di orizzonti. Non vogliono diventare grigi come è stato per i loro genitori, il padre di Farah che da ragazzo sognava la rivoluzione e ora deve difendersi al cantiere dalle accuse degli operai di stare col padrone. E sua madre, bella e segreta, che in questa figlia amatissima vede sé stessa come era un tempo e ha paura che anche a lei tolgano tutto.

 

 

Nel suo magnifico esordio Leyla Bouzid (era alle Giornate degli Autori di Venezia) compone una storia che come le canzoni della sua protagonista scorre in un sentimento sospeso, l’attesa di un passaggio brusco, violento che dice molto, ma senza sottolineature, su cosa è vivere in una dittatura: il sentimento di paura costante, gli sguardi che sfuggono, una sola parola può diventare una condanna, una poesia la rivoluzione. Denunce, interrogatori, prigione: la Tunisia di Ben Alì dove la rabbia giovane cerca di aprire lo squarcio per un respiro.

 

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Anche se Appena apro gli occhi (che arriva in sala domani, e non si deve perdere) non è un film «sulla» rivoluzione tunisina, che nonostante gli attacchi sta andando avanti per la sua strada, ma sulla essenza, sui movimenti che l’hanno ispirata, sui conflitti e sui difficili passaggi per conquistare nuovi spazi, sui terrorismi sotterranei passati e presenti.

 

 

Leyla Bouzid filma il suo paese come non si è mai visto: ne coglie i frammenti e gli stridori, i figli di una borghesia che, come rinfaccia un amico ai musicisti – si scoprirà poliziotto infiltrato – «può permettersi tutto», la Tunisia proletaria, gli scantinati, l’«underground» vibrante, fertile, in cui le nuove generazioni lanciano la loro protesta che si diffonde, oltrepassa i muri dei locali spesso chiusi dalla polizia, dei bar sul mare dove un verso d’amore scatena la repressione.

 

 

Da suo padre Nouri che coi suoi film, sin dall’esordio, L’uomo di cenere ha scosso il cinema mafghrebino (e l’immaginario formattato europeo) cercando nel conflitto, nel gesto di una rivolta impossibile, nella rassegnazione e nella sconfitta (Gli zoccoli d’oro) il racconto del suo paese, Leyla ha imparato la lezione di un cinema politico capace di spostare lo sguardo e insieme a esso le certezze. Dunque è la testa che si deve cambiare ed è quella soggettività desiderante che fa tremare il potere dei dittatori fanatici, Ben Alì o l’Isis, che infatti delle caznoni in ogni sua forma e della musica tutta ha paura.

 

 

Farah canta e ci crede, lei vive le sue canzoni, ma gli altri? Ballare con i ragazzi, il rossetto, una birra nei bar che sono lo spazio degli uomini. Il suo ragazzo dopo che hanno fatto l’amore non lo accetta, la vuole per sé, la vuole fermare, è cosa sua. Eppure nelle parole che ha scritto per lei, per la sua voce diceva il contrario. Da dove comincia allora la rivoluzione? Dai colori del vestito scollato, dai capelli, dalla voglia di ridere di una ragazza che per questo fa incazzare maschi e femmine?Dalla disponibilità a mettersi in gioco, a capovolgere educazione e abitudini?

 

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Leyla Bouzid è nata nell’84 a Tunisi, la sua generazione è quella del film – che ha vinto anche alle Giornate di Cartagine, con lei che ha chiesto di liberare i 7000 ragazzi in prigione per avere fumato marjiuana – e il suo sguardo è quello di Farah – sublime Baya Medhaffer nel duetto tutto di donne tra scontro e complicità, con la madre, Ghalia Benali che regge il film.

 

 

È il corpo nudo del ragazzo di Farah che Leyla Bouzid filma la mattina quando i due si svegliano insieme, la ragazza lo guarda, lui si copre quasi imbarazzato: non mi ha mai guardato una donna. No, perché sono i maschi a guardarle, sono i maschi a controllarle. Lei invece è già altrove.