Un cubo nero riempie lo spazio scenico. È grosso, ingombrante, imprescindibile dai movimenti della donna che lo include in ogni suo gesto, vi si adagia sopra, lo cavalca, lo avvinghia con il furore del suo stato di reclusa.
La carta da parati gialla, tratto dall’omonimo racconto del 1892 della statunitense Charlotte Perkins Gilman, si concentra su un momento particolare vissuto da una donna borghese alla fine dell’800. Quando il marito medico, per curarla da una depressione post partum, la segrega «amorevolmente» in una stanza, vietandole di leggere e scrivere, rimpinzandola di alimenti altamente proteici e chiamandola «stupida oca benedetta».

Scrittrice, poeta e saggista, socialista e attivista, Perkins Gilman è considerata una delle prime femministe, non solo per i sui scritti, ma proprio per le scelte di vita compiute, che scardinavano il ruolo tradizionale di donna-moglie, ma anche di donna-madre.
Riletto dai movimenti  degli anni 60 e 70 del ‘900, la stessa Carta da parati gialla diventa uno dei primi testi di rivendicazione di genere della cultura occidentale. Dalla vicenda autobiografica della depressione, Gilman entra nella mente della donna, nelle sue umane fragilità, come pure nella sua determinazione ad affrancarsi da una condizione ingiusta. E l’attrice (Elena Balestri) in tunichetta bianca, un pò alla Isadora Duncan, si muove senza il fardello di secoli di sottomissione e, come attirata da un pensiero lieto, spesso sorride. Quasi consapevole che il percorso verso l’emancipazione sia irreversibile, al di là della sua soggettività.

Lo spettacolo, diretto da Paolo Biribò e Marco Toloni, che hanno dato al racconto la forma del monologo, sul palcoscenico del Teatro Studio Uno (nella storica periferia romana di Torpignattara) aumenta la claustrofobica dimensione, col monolitico cubo piazzato a esaurire l’area d’azione della protagonista. Costretta a sfondare la sua visione mentale in quella orribile carta da parati, trasformata in rifugio e insieme in luogo di delirio nel desiderio di leggere e scrivere.
Qui spazio chiuso di sterile segregazione, che, al contrario, una trentina d’anni dopo, farà dire a Virginia Woolf che una donna deve avere «una stanza tutta per sé dove poter scrivere» – preceduta da un’altra affermazione, ancora più rivoluzionaria: «Una donna deve avere soldi».
Nel finale, la liberazione della donna arriva con la morte, si suicida. Suicidio che, dopo una diagnosi di cancro incurabile, chiuderà anche la vita di Charlotte, nel 1935. Autodeterminazione fino alla fine nel ribadire il diritto all’eutanasia