Massimo Rossi insegna Geografia del territorio contemporaneo allo IUAV, Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Capire le mappe, che lui definisce un mezzo di comunicazione vecchio come il mondo, è materia di studio e oggetto di personale passione, confluiti nell’idea della mostra. «Guardare al ruolo della geografia nel contesto della Grande Guerra mi sembrava una prospettiva interessante. Sono partito da ciò che normalmente si intende per carta geografica: una questione geometrico – matematica. Da una sfera tolgo la terza dimensione e quindi diventa piatta. Già c’è qualcosa che non va. Le tre dimensioni diventano due, perciò devo adattarmi. Scelgo un sistema di proiezione e, a seconda del sistema, dilato, restringo. Cioè inserisco un punto di vista. La costruzione delle carte, dunque, ha a che fare con chi le fa e il contesto cui appartiene.

Questo significa che la narrazione della geografia attraverso le mappe è soggettiva al pari della narrazione storica?

Certamente. Ogni cartografia, quando cominci a studiarla, ti rivela l’ordito della società che ha voluto esprimere. Negli anni ’80 del diciannovesimo secolo ci fu una rivoluzione nel modo di pensare le mappe. Dalla questione geometrico – matematica, un atto di fede, ‘la carta è così’, si passò alla carta quale esito culturale e riflesso della società. Il sistema della geografia dell’800 e ’900, che derivava dalle teorie di Darwin, dalla botanica, portò a formare una disciplina rivolta al concetto di nazione. La geografia europea tradusse questo pensiero, condizionato poi dalle tensioni sociali della Grande Guerra. Nacquero cartografie che ‘urlavano’ lo spirito del tempo, vale a dire le pretese territoriali nazionali secondo ciascuno stato. La geografia stava imparando a confezionare carte mirate a esprimere concetti.

La mostra deve molto alla ricerca negli archivi 

Quando metti insieme le carte conservate negli archivi della Società Geografica Italiana, Archivio storico dello Stato Maggiore, Archivio del Genio, dello Stato a Firenze… ti accorgi che sono state declinate a seconda dei punti di vista. Il problema è dimostrarlo, perché sembrano soltanto carte geografiche. I luoghi sono qui, non si spostano; per andare da qui a qui c’è una strada. In realtà sono io, cartografo, che scelgo la scala, decido quel colore, se mettere o non mettere un toponimo. La mia carta è costruzione sociale e culturale finalizzata a significare qualcosa. Cito ad esempio una cartografia ottocentesca dell’impero britannico che raffigura con grafica liberty il Commonwealth in divenire. La Britannia, color rosa tenue, è al centro del mondo. In rosa, sul planisfero, i suoi possedimenti e i tracciati delle rotte commerciali. In basso l’immagine di Atlante che regge il mondo. E sul mondo è seduta la raffigurazione di Britannia. Un’iconografia esteticamente gentile, che tale non appare se la decostruisci spogliandola dei suoi orpelli».

La strumentalizzazione delle carte riguardò da vicino anche la Grande Guerra

La Grande Guerra sotto l’aspetto geografico è la chiave narrativa che abbiamo scelto, con l’intento di far capire in che modo l’opinione pubblica sia stata manipolata attraverso le carte e la geografia si sia fatta manipolare dal potere.

Visitando la mostra, la questione dei confini naturali emerge come punto nodale

I confini naturali sono un equivoco e una bugia enormi, che ci hanno però portati in guerra. Nei trattati dei geografi del tempo esistevano l’Italia svizzera del Canton Ticino, francese, inglese perché si rivendicava il diritto su Malta, austriaca. Temporaneamente soggette a dominazioni straniere. Si utilizzava la geografia fisica per assegnare dei valori assoluti, che erano invece soggettivi. Pensiamo al ruolo straordinario che ha una carta geografica: è l’unico modo per vedere un confine, perché quel confine è tracciato su di essa. Usare il Po per dividere due regioni costituisce un falso. Un fiume è fatto dal suo intero bacino idrografico. Tagliarlo a metà risulta credibile grazie a una riga sulla carta.

Cos’è oggi una carta geografica?

Le carte non si camminano più. C’è un occhio che fotografa dall’alto, le foto vengono plottate e stampate. Nessuno fa più collaudi. Oggi abbiamo un’altissima tecnologia e una carenza drammatica di informazioni. Le foto da un aereo o da un satellite non possono sostituire le carte: mancano i toponimi, le curve di livello, una semantica che metta in relazione i luoghi. Nella fotografia c’è tutto, si dice. Bugia. Quando progetti hai bisogno della memoria storica, cioè delle carte dei secoli passati. Sei in mezzo alla campagna e un’indicazione dice «Via della palude» Della palude neanche l’ombra. Ma le carte del catasto testimoniano che c’era, duecento anni fa. Prova a costruire un grattacielo su quel terreno.