C’è la strategia degli annunci, «la natura delle promesse è quella di rimanere immuni al cambiamento delle circostanze». E i velenosi affondi sui «fannulloni», «nella nostra società c’è una profonda divisione tra coloro che vogliono lavorare e godere dei frutti della loro fatica e un crescente numero di coloro che è diventato di moda chiamare ’i disaffezionati’, ’gli svantaggiati’, ’i diversamente motivati’, quello che si usava un tempo chiamare ’gente pigra’, gente disonesta che non vuole assumersi la responsabilità delle proprie azioni o della propria vita».

Nell’anno primo dell’«era Renzi» non si possono leggere le parole di Francis Urquhart, il protagonista della trilogia letteraria britannica di House of Cards, senza provare un leggero brivido lungo la schiena. Difficile infatti non cogliervi una sinistra analogia con la piega assunta dal dibattito politico del nostro paese e con il tipo di retorica «narrativa» che contraddistingue proprio il presidente del Consiglio. Se a questo si aggiunge il fatto che Renzi, non fa mistero della sua passione per i libri di Michael Dobbs, il creatore della Casa di carte, e per la serie tv che ne è stata tratta negli Stati Uniti – in Italia trasmessa da Sky – in cui Urquhart è ribattezzato Underworld e impersonato da Kevin Spacey -, al punto, si dice, di averne proposto l’utilizzo nei corsi di formazione dei giovani quadri del Partito Democratico, l’effetto corto-circuito è completo.

Il problema è, però, che Sir Michael Dobbs, classe 1948, prima di essere nominato alla Camera dei Lords, è stato un importante esponente del Partito Conservatore, portavoce parlamentare dei Tory negli anni Ottanta e soprattutto capo dello staff di Margaret Thatcher a Downing Street. Certo un brillante politico e un autore raffinato, la descrizione delle ambizioni personali, del cinismo e della violenza messe al servizio di un progetto egemonico descritte in House of Cards hanno suscitato nella critica anglosassone addirittura paralleli con Il Principe di Machiavelli o il Riccardo III di Shakespeare, ma pur sempre un uomo di destra, tra gli strateghi di quella rivoluzione conservatrice inaugurata proprio dalla Lady di ferro in Europa una trentina di anni fa. Il romanzo e la serie tv, si dirà, sono popolarissimi in tutto il mondo, al punto da essere seguiti anche da Obama e da Cameron e, pare, da un gran numero di dirigenti cinesi, ma l’eco conosciuta dal fenomeno nel nostro paese resta pur sempre paradossale.

Come conferma indirettamente lo stesso Michael Dobbs, in questi giorni tra gli ospiti dell’International Communication Summit in corso a Roma, dove ha presentato il secondo volume della trilogia, House of Cards 2 – Scacco al re, pubblicato come il precedente da Fazi (pp. 382, euro 16,50).
Sir Dobbs, pare che Renzi sia un suo grande ammiratore, cosa ne pensa?
Ho visto una foto del vostro presidente del Consiglio che comprava una copia del mio libro e ovviamente mi ha fatto piacere. Così gli ho mandato una copia autografata. Però, dato che aveva citato House of Cards più volte, gli ho anche scritto di fare attenzione, che si tratta di un romanzo, di puro intrattenimento, non certo di un testo di formazione politica o, peggio, di un manuale di istruzioni.
Il protagonista del romanzo, Francis Urquhart, è un politico conservatore, mentre Franck Underworld, nella serie tv che lei stesso ha sceneggiato, è un esponente democratico. Come dire che quella visione cinica della politica non è né di destra né di sinistra?
Non c’è niente di davvero ideologico nel mio personaggio, lui fa soltanto quello che le situazioni in cui si trova ad operare sembrano richiedergli. Comunque, a questo proposito, in questi giorni mi è stato chiesto che consiglio darei a Renzi. Beh, tutto quello che so sulla politica l’ho imparato lavorando a stretto contatto con Margaret Thatcher e lei teneva nel suo armadio un paio di stivali chiodati, ed è grazie a quelli che ha fatto tanta strada nella sua lunga carriera politica. E allora il mio consiglio a Renzi è di tirare fuori dal suo cassetto i suoi stivali, dargli una bella lucidata e mettersi in marcia.
In «House of Cards» tutto si svolge nei palazzi della politica, al massimo si dà ascolto ai sondaggi e ai talk-show. Chi guida la «cosa pubblica» non ha più bisogno di cercare il consenso?
Mi sembra che oggi tutto si svolga in quella specie di «bolla» della politica che domina sia a Washington che a Westminster, e forse nel resto d’Europa, magari anche a Roma. Un sistema che sembra bastare a se stesso, che ha proprie regole e leggi, in cui una volta ottenuto il mandato non ci fa più troppe domande su cosa vogliano gli elettori.
Il suo personaggio insegue il potere a ogni costo, non è certo una persona raccomandabile, eppure i politici per primi sembrano amarlo invece che stigmatizzarne il comportamento. Per quale motivo, secondo lei?
Perché vedono in lui qualcosa che conoscono bene. Credo che oggi la cosa più importante per un politico non sia essere amato, ma essere rispettato, ottenere il rispetto dalla gente. Per essere efficace devi dimostrare qual è l’orizzonte finale da raggiungere e allora potrà succedere che si perdano battaglie, ma se è chiara la tenacia, la spietatezza con cui vuoi perseguire quell’obiettivo, le persone saranno sempre con te. Come politico passo il 95% del mio tempo a convincere gli altri che opero per il bene di tutti, ma è facendo ricorso al restante 5%, quello in cui vado in fondo all’obbiettivo, quale che sia, che trovo davvero consensi. Basti pensare che nello scrivere House of Cards ho decisamente annacquato la realtà della politica che ho conosciuto io stesso.
Negli Stati Uniti i repubblicani sembrano aver adottato una linea del genere, Francis Fukuyama l’ha definita «vetocrazia» per il modo in cui si sono opposti ad ogni proposta della Casa Bianca. Obama non è stato altrettanto cinico, per questo ha perso le elezioni di «midterm»?
L’elezione di Obama era stata identificata con lo slogan «Yes We Can», con un grande sogno di cambiamento e dopo aver messo un’asticella così in alto era impossibile non deludere, come in effetti è accaduto. Perciò lui sarà probabilmente ricordato più per quello che è stato in grado di evocare, per il simbolo che ha incarnato che per ciò che è riuscito a realizzare davvero.
Resterà l’uomo, resterà quello che ha rappresentato, resterà il sogno, ma niente di più.