E così, come prevedeva il copione, la “consulta” catalana di autodeterminazione del 9 novembre è finita dove tutto era cominciato: tra le grinfie del Tribunale costituzionale (Tc) spagnolo, un organismo la cui terzietà rispetto al potere legislativo ed esecutivo lascia molto a desiderare. I suoi membri, quasi tutti ex politici, o molto vicini ai politici, sono scelti dal parlamento (8), dal governo (2) e dall’equivalente del Csm (2), che in Spagna è di marcatissima orientazione conservatrice.

I dodici membri attualmente in carica sono fra i più conservatori della sua storia. Il presidente ha militato per tre anni tra le fila del Partito popolare ed è stato amministratore di una consultoria, anche se entrambe le cose sono esplicitamente vietate dall’articolo 159 della Costituzione; fra i suoi membri c’è un pasdaran dell’Opus Dei, ex deputato del Pp, che parla di una “Spagna paradiso del turismo abortista”; fino a pochi mesi fa era un suo membro un giudice che venne fermato completamente ubriaco alla guida della sua moto a Madrid (non fu facile convincerlo a dimettersi). Solo due le donne (entrambe dello schieramento vicino al Psoe).

La mobilitazione del fronte nazionalista catalano cominciò nel 2010, non appena proprio il Tc decise di accogliere in parte il ricorso del Partito popolare contro lo Statuto catalano (approvato nel 2006 e già vigente). Uno Statuto che era stato frutto di un lungo processo di mediazione, passato per il Parlament catalano, per le Cortes di Madrid, e culminato con un referendum (in Catalogna). Nessuno ne era entusiasta, ma nessuno poteva dirsi del tutto scontento: insomma, un compromesso che in qualche modo era riuscito a canalizzare buona parte delle aspirazioni catalane senza scuotere troppo le istituzioni e senza bisogno di riformare la Costituzione.

Un Tc anche allora fortemente politicizzato decise di intervenire contro gli aspetti più simbolici e meno concreti dello statuto (la lingua catalana e lo scivoloso concetto di “nazione”, in primis) che, anche se minoritari (vennero modificati solo 14 articoli sui 144 che aveva impugnato il Pp), servivano per mandare un chiaro segnale politico. Colto perfettamente dai catalani. Dal 2010 a oggi, i nazionalisti catalani, con il valido aiuto del governo centrale e del Psoe, sono riusciti a far passare il messaggio che la strada della negoziazione con Madrid non porta da nessuna parte.

Dietro il crescente malcontento nazionalista, culminato nella decisione di lunedì, presa “a velocità supersonica” come ha detto ironicamente il president Artur Mas, c’è questa storia. Senza contare che dall’ultima finanziaria socialista del 2011 alla finanziaria 2015 (presentata proprio ieri dal governo Rajoy) gli investimenti infrastrutturali dedicati alla Catalogna sono scesi del 60%, con la conseguenza che l’investimento pro capite catalano è il più basso di tutta la Spagna (complice anche la fine degli investimenti per l’Alta Velocità in questa parte del paese).

Il totale degli investimenti previsti è solo il 9.5% del totale, esattamente la metà di quanto previsto dallo Statuto.
In sole 10 ore, lunedì il governo Rajoy è riuscito a: riunire un consiglio dei ministri straordinario che, forte del rapporto unanime del consiglio di stato (redatto in tempi record una domenica mattina), ha appoggiato il ricorso contro la legge sulle consultazioni popolari catalane e il decreto di convocazione della consulta del 9 novembre; far consegnare dall’Avvocatura di Stato il ricorso; far riunire in maniera straordinaria il Tc che, in meno di un’ora ha accettato il ricorso (l’accettazione verifica solo la forma, non il merito) e ha bloccato la consulta.

Il governo catalano, che sabato aveva attivato a cinque minuti dalla firma del decreto la campagna istituzionale per il referendum, ha fatto sapere che non si arrende. Il primo obiettivo di Mas è di far arrivare le obiezioni giuridiche al Tc per convincere i magistrati ad annullare la sospensione. Il secondo passo sarà in settimana quello di riunire tutti i partiti che hanno appoggiato la consulta, la maggioranza del Parlament, a cui aggiungere i socialisti catalani (contro la consultazione del 9 novembre, ma favorevoli alla legge) per stabilire i prossimi passi.

Se il governo di Madrid può argomentare, con una certa difficoltà, che il referendum priverebbe gli altri spagnoli della sovranità su un pezzo del territorio, molto più difficile argomentare contro la legge sulle consultazioni, il cui obiettivo è un maggior coinvolgimento cittadino sulle decisioni delle istituzioni catalane. Per dare il colpo di grazia alla Spagna uscita dalla Transizione del 1978, al Tc basterà accettare senza colpo ferire le argomentazioni del governo.

Il cui presidente, Mariano Rajoy, proprio ieri ha ribadito che riformare la costituzione non è fra le sue priorità.
Secondo Artur Mas lunedì “non è finito nulla” e la Generalitat “continuerà ad andare avanti”. Oggi il Parlament sceglierà i membri della Commissione di controllo per la consultazione e la pagina web dedicata al 9N è ancora attiva, ma la campagna della Generalitat è stata sospesa. Nonostante le promesse, per gli stranieri residenti sarà praticamente impossibile votare: bisogna farne esplicita richiesta entro pochi giorni con un procedimento farraginoso; nessun funzionario pubblico in presenza di una sospensione del Tc vorrà comunque rischiare una condanna.

Il portavoce del governo catalano chiede una sentenza in tempi “supersonici” e lo stesso Tc ha fatto sapere che, data la rilevanza del tema, per prendere una decisione non attenderà i cinque mesi (rinnovabili) durante i quali è vigente la sospensione. Che dunque potrebbe arrivare prima del 9 novembre. La Generalitat chiederà al Tc di poter continuare a organizzare la consulta nel caso venisse ritirata la sospensione. Ma la sentenza finale difficilmente sarà sorprendente.