La misura della capacità che i governati hanno di controllare l’operato dei governanti, quindi in buona sostanza il punto cruciale del rapporto fra i cittadini di una democrazia e il potere che li dirige, passa inevitabilmente attraverso lo stato in cui versa il sistema formativo ed educativo di un Paese.

La costituzione di individui critici, autonomi, correttamente informati e in grado di impegnarsi politicamente nel consesso sociale in cui si trovano a vivere, è determinata dalla forza e dall’efficacia con cui la scuola riesce a resistere alle enormi forze spettacolari (mass media, mercato, dogmi) che invece spingono per l’affermazione di un pensiero unico. In cui l’economia domina sulla politica, all’interno di un sistema di potere che vede un numero sempre più ampio di cittadini ridotti a consumatori passivi, strumenti senza valore per scopi che sono quelli del mercato e, in generale, di un modello sociale in cui il pensiero critico e la cultura personale vengono visti come orpelli anacronistici di un tempo remoto.

Questo è tanto più vero oggi, nell’epoca della società in Rete, in cui la straordinaria efficacia pervasiva dei mezzi tecnologici consente al potere di attuare un «metodo nuovo», come lo chiamava Gunther Anders, che consiste nell’impedire la comprensione da parte dei cittadini non più fornendo loro poche notizie, ma troppe, ponendoli nella condizione di «venire sopraffatti da una tale sovrabbondanza di alberi perché risulti loro impossibile vedere la foresta».

Eppure, è proprio in questa epoca di opulenza informativa che, invece, finisce con l’emergere la sostanziale indigenza conoscitiva, che deriva da decenni di politiche volte all’impoverimento e alla degenerazione di quello strumento fondamentale chiamato scuola.

Ne abbiamo parlato con Massimo Baldacci, ordinario di pedagogia generale presso l’università di Urbino Carlo Bo, e autore di un volume per i tipi della Franco Angeli: Per un’idea di scuola. Istruzione, lavoro e democrazia (pp. 152, euro 20), da lui stesso definito di «pedagogia militante».

Cosa intende per pedagogia militante, in grado di elaborare un’«idea di scuola»?

La «pedagogia militante» non si pone questioni di teoria pura, ma problemi formativi storico-pratici, che richiedono sia elaborazioni concettuali che prese di posizione. Essa – pur serbando la propria autonomia – non è neutrale ma sempre schierata. L’elaborazione di un’idea di scuola costituisce un momento militante se s’intende tale idea non in senso astratto ma storico-pratico: come il riferimento capace di orientare le politiche scolastiche e i concreti percorsi d’istruzione.

Nel libro sostiene che dobbiamo soprattutto all’ultimo decennio il progressivo tramonto di un’idea di scuola, che lei attribuisce al governo della destra e alle politiche liberiste…

L’idea di scuola rappresenta la stella polare per le politiche didattiche, senza di essa la scuola rischia di andare alla deriva. Il centrodestra aveva sostituito l’elaborazione di tale idea con lo slogan delle tre I (impresa, inglese, internet), ma – col ministro Moratti – aveva provato a darne una traduzione pedagogica con la scuola della «personalizzazione» (che rispolverava la vecchia ideologia delle «doti naturali», già contesta da Don Milani). Dal ministro Gelmini in poi, si è rinunciato a qualsiasi elaborazione pedagogica, sostituita da una controriforma tesa a smantellare le conquiste della scuola democratica e a imporre gli idoli del neoliberismo: competizione, meritocrazia, efficientismo. Le stesse forze progressiste sembrano oggi prigioniere del frame tracciato dal centrodestra, e quindi rischiano di muoversi secondo logiche subalterne. Tornare a riflettere criticamente sull’idea di scuola è cruciale per superare questa subalternità culturale e reimpostare le politiche per l’istruzione.

Nel riferirsi ai grandi classici, lei predilige soprattutto Dewey e Gramsci, parlando di una lezione di metodo che questi autori ci hanno lasciato. In che senso?

Questi autori, molto differenti tra loro, convergono in alcuni punti importanti per definire un’idea di scuola. Per entrambi, la formazione scolastica deve essere pensata e realizzata secondo un principio educativo unitario; e tale principio non rispecchia l’essenza perenne della scuola ma ha un carattere storico-relativo, e deve perciò essere ricavato da una riflessione sul senso e sulla funzione della scuola in una data fase storico-sociale. Inoltre, entrambi hanno visto la scuola in connessione col problema della democrazia, questione questa quanto mai attuale.

Lei, sulla scia di Kuhn, propone un vero e proprio cambio di paradigma. Dal paradigma del capitale umano a quello dello sviluppo umano. Cosa significa?

Nel paradigma del capitale umano, attualmente dominante, la scuola è vista in funzione del sistema economico: il suo compito è quello di formare produttori competenti, a vantaggio della competitività delle imprese. Ovviamente, la formazione dei produttori è uno dei compiti del sistema d’istruzione, e sarebbe errato non porsi la questione del nesso scuola/economia. Tuttavia, ridurre a ciò il compito formativo è gravemente unilaterale, e denuncia una netta subalternità all’economicismo neoliberista. Il paradigma dello sviluppo umano, dovuto ai lavori di Sen e della Nussbaum, è invece centrato sull’espansione delle libertà personali e vede l’istruzione come fattore di emancipazione individuale e di promozione della democrazia. Secondo me, un’idea di scuola deve portare a sintesi questi due paradigmi, ma quello dello sviluppo umano deve essere preminente e costituire la cornice entro la quale assimilare criticamente elementi del paradigma del capitale umano.

Il suo libro lancia un compito sovrano: riprogettare la scuola per la prossima stagione storica. In quali direzioni?

Il principio formativo della scuola deve essere concepito in relazione non a un’umanità astratta, ma all’uomo concreto, definito dai suoi rapporti sociali. Si tratta di portare a sintesi la formazione del produttore e quella del cittadino, nella consapevolezza che ciò risponde a un’esigenza non solo ideale ma anche oggettiva, che rende oggi necessaria la conquista di una nuova forma d’intelligenza: più astratta, flessibile ed ecologica.

Nel campo del lavoro, infatti, si può cogliere un nesso tra il movimento delle forme d’astrazione oggettiva del lavoro e i processi d’astrazione cognitiva sempre più richiesti al lavoratore, nonché tra le continue e imprevedibili trasformazioni dei modi di produzione e la flessibilità mentale richiesta dall’apprendimento continuo. Mentre, ai fini della partecipazione democratica, la complessità dei problemi sociali esige un’intelligenza sistemica, capace di cogliere le questioni nella loro totalità. Per coltivare una simile forma d’intelligenza la scuola va liberata da compiti direttamente professionalizzanti, rafforzando la formazione culturale generale, la coltivazione dell’abito della ricerca e la capacità di pensiero critico.La scuola, insomma, deve formare persone capaci di pensare con la propria testa, e che abbiano il coraggio di usarla, sia nel lavoro che nella politica. Ma i profeti del pensiero unico non gradiscono questa idea.