Sono cinquantasette le lettere di Charlotte Brontë da poco tradotte in italiano nel volume Ho tentato tre inizi. Lettere 1847 – 1853 (L’Iguana editrice, pp. 380, euro 17), piccolo gioiello curato e tradotto da Sara Grosoli con la postfazione di Paola Bono. Dal volume di Clement K. Shorter Charlotte Brontë and her circle (London, 1896) sono state scelte quelle che rispondono all’arco temporale che va dalla pubblicazione di Jane Eyre (1847) a quella di Villette (1853) e in particolare attinenti al percorso critico e creativo della scrittrice. Le lettere presentate, di cui solo undici hanno circolato in precedenti traduzioni, sono un’ottima occasione per ammirare la personalità appassionata e tenace di una donna che non ha mai smesso di dialogare con l’arte della parola.

Nella raccolta, che si avvale dell’utile testo inglese a fronte, si fanno largo diversi livelli di lettura. Il primo è immediatamente legato alla modalità con cui si pone Brontë quando con forza intrattiene scambi con editori, romanzieri e amici scrittori a lei contemporanei, sia prima che dopo aver rinunciato al proprio nom de plume. Come è noto infatti, la signorina Charlotte Brontë ha firmato i suoi due primi romanzi fingendosi il signor Currer Bell, fratello di Ellis e Acton Bell (ovvero Emily e Anne Brontë che pure circolavano sulla scena della scrittura pubblica sotto mentite spoglie). Ma «i misteri sono irritanti» e Charlotte in fondo è lieta di essersene sbarazzata «senza avere più nulla da nascondere», anche se mostrarsi non le impedisce di chiedersi «quale scrittore rinuncerebbe al vantaggio di poter aggirarsi non visto? In tal modo si possono tenere completamente nascosti i propri pensieri». Sotto pseudonimo Charlotte Brontë adotta comunque una schiettezza puntellata da un’incrollabile fiducia verso la relazione, il giudizio critico e il confronto, senza dimenticare l’attenzione per le scritture di Emily e Anne. Vigorose, potenti e originali sono aggettivazioni tra le molte utilizzate da Currer/Charlotte mentre ne scrive all’editore e amico William Smith Williams, anche dopo la loro prematura scomparsa.

L’ulteriore piano di lettura del volume è tematico e disseminato. Per esempio in una lettera allo romanziere George Henry Lewes, Brontë si interroga con perizia sul sistema letterario, il ruolo della scrittura, dell’autore e ciò che incontra o meno i gusti degli editori. Sospetta infatti vi sia una contraddizione tra la misura di una trama che risponda a Natura e Verità e che dunque non ceda a smoderatezze ingovernabili e il successo di una storia coinvolgente. Medita sul consiglio di Lewes di non allontanarsi dal terreno dell’esperienza autentica di cui tuttavia sa avvertire le incognite, agitate da un insopprimibile desiderio di rispondere al richiamo dell’immaginazione; l’esperienza può essere infatti un luogo insidioso per chi «corre il rischio di ripetersi, e finanche di diventare egocentrico». E poi «l’immaginazione è una facoltà forte, inquieta, che esige di essere ascoltata e messa in esercizio, dobbiamo rimanere completamente sordi al suo richiamo e indifferenti alle sue traversie? Quando ci mostra immagini scintillanti, noi non dovremmo mai guardarle, e tentare di riprodurle? E quando si fa eloquente, e parla spedito e insistente al nostro orecchio, non dovremmo scrivere quanto desta?».

Di scrittura riferisce appena si presenti la possibilità, discutendo «il motivo per cui gli autori sono spesso costretti ad abbassarsi al ruolo di meri pennivendoli», considerando infine la libertà e fluidità di chi scrive «senza mai obbedire agli ordini altrui, dettando certe parole e imponendo il loro uso, violente o misurate che siano». Non si contenta di una lettura da parte di critici scadenti perché «mortifica più del loro biasimo; lo scrittore che ne diventa oggetto non può fare a meno di desiderare per un momento di non avere mai scritto». Con altrettanta scrupolosità descrive il procedimento attraverso cui avviene la costruzione dei suoi personaggi, soprattutto quelli maschili di cui alcuni – come James Taylor allora impiegato alla Smith, Elder&co. – le chiedevano, sporgendosi verso la comparazione, così Rochester di Jane Eyre viene pensato accanto a Heathcliff di Cime tempestose – scritto dalla sorella Emily. Lo spirito critico che la muove nei confronti di se stessa si rivolge anche agli altri; la scrittura di Alexandre Harris, Leigh Hunt, George Sand, Dickens, Thackeray passano al setaccio del suo lucidissimo e autorevole parere.

Sarà per la manifesta «curiosità di mondo» – come viene definita da Paola Bono – che il grigiore dello Yorkshire in cui lei e le sorelle hanno vissuto diventa un riflesso meno cupo e ingombrante. Per questo strano e dolente ardore, che spesso si confonde con la mancanza di esitazione, le si può addirittura perdonare la valutazione severa nei confronti di Jane Austen. Il mondo tenuto tra le mani, il rigetto per l’affettazione dei salotti e la scelta di stare presso se stessa con una inconsueta fedeltà fanno di Charlotte Brontë una delle voci amate da Virginia Woolf che non a caso la annovera nelle scritture di «una qualche ferocia non addomesticata, eternamente in guerra con l’ordine riconosciuto delle cose, che fa loro desiderare di creare all’istante invece di osservare pazientemente».