«In un paese sempre più strano per me, […] rischio ora di apparire strano io a me stesso. Finalmente questa voce che riconosco, […] che mi richiama a quella che è stata, o vorrei fosse stata, la mia vita di studioso, di partecipe dello sforzo, nel dopoguerra di riabilitare l’Italia, la storia d’Italia». In queste parole, indirizzate da Carlo Dionisotti a Giovanni Pozzi nel novembre del 1995, non c’è solo il segno di un’amicizia intellettuale durata per quattro decenni. C’è soprattutto la coscienza del legame tra dottrina e impegno che caratterizza gli studia humanitatis, rendendoli organici a un’idea di civiltà.In questo senso, Dionisotti è stato un umanista in senso pieno: basta leggere oggi, accanto ai suoi capolavori (Geografia e storia della letteratura italiana, Machiavellerie, gli Scritti sul Bembo), gli Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, usciti da Einaudi nel 2008, a cura di Giorgio Panizza.

Dionisotti (1908-1998), che negli anni tra il 1943 e il 1945 aveva partecipato attivamente a un nucleo del Partito d’Azione, era emigrato in Inghilterra dopo la liberazione; docente di letteratura italiana dapprima a Oxford poi al Bedford College di Londra, aveva messo a frutto dalla giusta distanza l’eredità della scuola storica torinese, al cui insegnamento si era formato. Il destinatario della lettera, il locarnese Giovanni Pozzi (1923-2002), padre cappuccino ordinato nel ’47, si era laureato sotto la guida di Contini e di Giuseppe Billanovich, a Friburgo, dove divenne poi ordinario di letteratura italiana. Le duecento lettere che i due grandi studiosi si scambiarono nell’arco di un quarantennio sono ora disponibili nell’edizione commentata procuratane da Ottavio Besomi, decano degli studi italianistici in Svizzera, già titolare della cattedra di letteratura italiana all’Università e poi al Politecnico di Zurigo: Carlo Dionisotti-Giovanni Pozzi, Una degna amicizia, buona per entrambi Carteggio 1957-1997 (a cura di O. B., Edizioni di Storia e Letteratura, pp. XLVIII-306, euro 38,00). Le lettere di Dionisotti e di Pozzi si trovano nell’Archivio Pozzi presso l’Archivio Provinciale dei Cappuccini, a Lugano, dove si conservano anche quelle di De Robertis, Billanovich e di altri mittenti, utilizzate nel commento.

Quando la corrispondenza ha inizio, Pozzi sta per pubblicare i primi saggi sulla rivista «Italia medioevale e umanistica», mentre Dionisotti, da Londra, è già un maestro riconosciuto. Come spesso accade, o accadeva, il tono dei primi scambi tende a protrarsi negli anni, fissandosi nei ruoli con cui i due interlocutori si designeranno quasi invariabilmente per tutta la durata del carteggio: «Caro Professore» («… e amico», ma solo verso la fine) per Dionisotti, «Caro Padre» per Pozzi.

Occorre tenere a mente quell’intento di «riabilitazione» civile e storica dichiarato da Dionisotti per meglio seguire lo spazio e il tempo del carteggio. L’Inghilterra e la Svizzera apparivano, agli occhi degli intellettuali d’ispirazione liberale e azionista, i Paesi in cui la bufera dei regimi e delle guerre non era riuscita a spazzare via i valori della civiltà europea. La filologia, intesa come conservazione e trasmissione dei monumenti illustri del passato nel presente, era disciplina coerente con un’idea di risanamento civile e culturale. Quali migliori sedi dell’Inghilterra e della Svizzera per attuare questo programma? Vivere nel presente significava perciò anche, in quel particolare contesto storico e per quegli intellettuali, farsi contemporanei del passato, coltivarne parole significati opere, con passione e precisione. Il senso del tempo che emerge nel carteggio corrisponde al paradosso di quest’anacronistica contemporaneità. Da una parte, i mesi e gli anni sembrano fermarsi sull’immutata ritualità di una cortesia non solo epistolare, così come sull’interrogazione paziente dei testi e degli autori. Dall’altra, l’attività costante dell’officina filologica e il continuo susseguirsi dei viaggi e degli spostamenti di studio e lavoro danno il senso di un tempo che diventa tanto più sfuggente e rapido quanto più è costretto nelle maglie di un calendario accademico o di una scadenza editoriale: «Sempre è il tempo che manca. Oltre al resto. Ma il tempo sopra tutto – scrive Dionisotti a Pozzi, nella lettera datata «21/X/1963» – E così avanti si va coi paraocchi e il fiato corto celebrando le magnifiche sorti e progressive dell’idealismo umano».

Il fatto è che – osserva Besomi nella premessa – anche nella cultura umanistica il tempo «ha un’accelerazione che moltiplica la distanza da fatti e persone pure di un passato vicino, provocandone facilmente l’oblio». Ma né Pozzi né Dionisotti sembrano correre il rischio dell’oblio, in primo luogo grazie alle loro opere; ma anche in virtù dell’intenso ricordo che i due uomini hanno lasciato in chi ha lavorato con loro (e perfino in chi ha fatto in tempo solo a incontrarli). L’edizione del carteggio, curata da uno studioso che ha intensamente collaborato con Pozzi e che è infatti spesso nominato in queste lettere, ne è oggi la migliore testimonianza.

I passi più belli del carteggio sono appunto quelli in cui Pozzi e Dionisotti parlano dei seminari in cui maestri e allievi avevano la possibilità d’incontrarsi per discutere di ricerche in corso e lavorare ai grandi cantieri filologici (come l’edizione dell’Adone, pubblicata da Mondadori nel 1976, a cura di Pozzi con la collaborazione di molti studiosi della sua scuola). A Pozzi, dispiaciuto che gli studenti friburghesi infastidissero il «Professore» chiedendogli di leggere i loro lavori, Dionisotti risponde: «Non si preoccupi delle tesi dei ragazzi. A Romagnano avevo tempo e quiete ed è stato un gran piacere leggere quei lavori tutti molto buoni.

Sono ragazzi che meritano di aver avuto lei per maestro e che pertanto anche meritano l’affetto e la stima degli amici del loro maestro». Romagnano Sesia, dove sorgeva la villa paterna di Dionisotti, e soprattutto il convento ticinese di Bigorio, dove si svolgevano i seminari della ‘bella scola’ di Pozzi, sono i luoghi più spesso evocati nelle lettere. Isole felici di una provincia di per sé non esaltata («Sono molto dispiaciuto – scrive Pozzi da Friburgo, nel ’62 – che il Ticino resti sempre ad un livello così basso sia dal punto di vista scientifico che da quello della moralità letteraria»), ma in cui confluivano volentieri i maggiori esponenti della filologia italiana.

A favorire il dialogo, specialmente con i più giovani, dovette contribuire l’atteggiamento tutt’altro che paludato o istituzionale di Dionisotti, apprezzabile anche in queste lettere: «Con tutto il rispetto per Contini e per la Corti, – scrive il Professore nel marzo del ’62 – non ho motivo di credere che nel campo della letteratura umanistica del 4 e 500 essi sappiano più di quel che sappiamo noi. Tirino fuori questo loro espressionismo veneto, e discuteremo. Fino a prova contraria credo che siano balle». Da un lato l’understatement,e a volte l’insofferenza,di Dionisotti nei confronti di certe procedure o atteggiamenti invalsi nella sua stessa disciplina («Siamo stanchi e sazi di apparati stratosferici, di stemmi fasulli, di araldica filologia, di quisquilie grafiche, ma siamo affamati di commenti», 2/VIII/1965); dall’altro l’attenzione di Pozzi per i problemi dell’insegnamento (testimoniato dagli strumenti allestiti e dalle attività promosse nel campo della didattica): i due studiosi intrecciarono il loro dialogo anche su questa base, sulla volontà di condividere il sapere umanistico nelle forme e con gli strumenti più utili.