Due anniversari ricorrono in questi giorni negli Stati uniti: un anno dall’assassinio di Michael Brown, ucciso dalle pallottole della polizia il 9 agosto scorso a Ferguson, e il cinquantenario del Voting Rights Act (Vra), firmato dal presidente Lyndon Johnson il 6 agosto del 1965 in difesa del quindicesimo emendamento della Costituzione federale che garantisce a tutti i cittadini il diritto di voto. C’è poco da festeggiare in entrambe le circostanze.

Con buona pace di quanti hanno manifestato chiedendo giustizia per Brown, a novembre il Grand Jury ha deciso di non processare Darren Wilson, l’agente responsabile dell’omicidio, e da allora la lunga lista delle vittime afroamericane uccise per mano delle forze dell’ordine – una ogni 28 ore – ha continuato a lievitare: Akai Gyrley a New York, Tamir Rice a Cleveland, Freddie Gray a Baltimora, Walter Scott a Charleston, Samuel DuBose a Cincinnati e ancora tante altre.

Il backlash che ha subito il Vra nei cinquant’anni trascorsi da quando è entrato in vigore, è illustrato nei dettagli da Ari Berman in un libro pubblicato da poco in occasione della ricorrenza e intitolato Give us the ballot in omaggio all’omonimo discorso tenuto da Martin Luther King a Washington nel 1957.

Erano gli albori del movimento per i diritti civili, due anni dopo il boicottaggio degli autobus di Rosa Parks e otto anni prima delle tre famose e sanguinose marce da Selma a Montgomery, Alabama (la prima ricordata come «bloody Sunday» per l’intervento violento della polizia contro 600 manifestanti inermi) che spinsero Johnson e il Congresso a varare la nuova legge sul diritto di voto.

Nel 2013 la Corte Suprema ha profanato il Vra revocando l’obbligo che imponeva a nove stati del Sud di richiedere l’autorizzazione al Dipartimento di giustizia per procedere alla modifica dei rispettivi sistemi elettorali.

Tra il 2011 e il 2015 sono state introdotte 468 restrizioni in 49 stati. È così che migliaia di afroamericani (e non solo) sono stati rimossi dalle liste degli aventi diritto. In maniera complementare opera il sistema penitenziario, che Angela Davis nel 1997 ribattezzò «Prison Industrial Complex» sottolineando in che modo e misura l’amministrazione della giustizia penale negli Stati uniti sia diventata letteralmente un «affare» di stato.

Secondo Michelle Alexander, autrice di The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness, la macchina carceraria è lo strumento principale dell’oppressione razziale: macina giovani afroamericani prevalentemente maschi, incriminati per reati minori, e sforna cittadini di serie b, discrezionalmente privati del diritto al lavoro, dell’accesso al welfare e dell’esercizio del voto, in base alle legislazioni di ciascuno stato. Secondo i dati della National Association for the Advancement of Colored People, una delle più antiche e più rappresentative organizzazioni antirazziste, attiva dal 1909 nella lotta contro la discriminazione, gli afroamericani costituirebbero quasi la metà della popolazione carceraria statunitense (1 milione su 2,3) con un tasso di arresti pari a sei volte quello della popolazione bianca.

Le leggi Jim Crow – che un tempo sancivano la segregazione dei neri e che sarebbero state abrogate a metà degli anni Sessanta sulla scia delle mobilitazioni di massa per i civil rights – tornano perciò a farsi strada attraverso una giustizia iniqua, che dichiara guerra alla droga e alla criminalità quasi esclusivamente sulla pelle dei suoi cittadini di colore.

«Essere negro negli Stati uniti, ed esserne relativamente cosciente», disse James Baldwin in un’intervista radiofonica del 1961, «significa essere sempre in collera». Di collera, tradotta in rabbia e convertita in rivolta, sono state inondate le strade di Ferguson ad agosto dell’anno scorso e quelle di Baltimora ad aprile di quest’anno nonostante i coprifuochi, gli arresti e l’intervento delle truppe della Guardia Nazionale.

BlackLivesMatter, nato come un hashtag nel 2013 dopo l’assoluzione di George Zimmermann, il poliziotto che aveva ucciso Trayvon Martin a Sanford (Florida), è diventata la parola d’ordine di centinaia di attivisti che proprio in questi giorni si mobilitano a Ferguson. Vogliono che giustizia sia fatta, ma non fanno appello al sistema giudiziario nazionale. Denunciano la violenza di stato e esigono che lo stato la riconosca. Chiedono meno polizia e più case, lavoro, istruzione e sanità. Ricordano che le vite degli afroamericani contano, indiscriminatamente tutte.

Nei Lineamenti di filosofia del diritto Hegel chiama indignazione (Empörung) quella disposizione interiore – contro i ricchi, la società e il governo – e che affonda le radici nella povertà e rappresenta il tratto distintivo della plebe. Non basta la povertà perché ci sia indignazione, bisogna che la natura si faccia da parte, che la colpa venga imputata alla società e che l’indigenza sia finalmente percepita come un’ingiustizia.

La storia dell’emancipazione nera negli Stati uniti è stata fin dall’inizio una storia di indignazione e rabbia contro l’assetto di uno stato perverso che opprime per sfruttare e reprime per discriminare. Sembrava ad alcuni che la nuova era inaugurata dalla presidenza Obama avrebbe costretto a lasciarsi alle spalle quella storia e quella tradizione di lotte. La brutta notizia, e però prevedibile, è che l’elezione del primo afroamericano alla Casa Bianca non abbia smantellato con un gioco di prestigio il dispositivo razzista che tanto impregna le fondamenta di questo paese. La buona notizia è che quell’indignazione continua, a Ferguson e altrove, a farsi lotta.