Il mea culpa è scattato all’indomani della manifestazione di domenica a Tel Aviv di migliaia di ebrei di origine etiope (falasha), terminata con duri scontri con la polizia, proprio come quella della scorsa settimana a Gerusalemme. «Abbiamo sbagliato», ha ammesso ieri il capo dello stato Reuven Rivlin «non abbiamo visto e non abbiamo ascoltato abbastanza: tra chi protesta nelle strade, ci sono alcuni dei nostri più eccellenti figli e figlie». Poi è stata la volta del premier Netanyahu che, sempre ieri, ha ricevuto una delegazione di falasha che includeva anche Demas Pekada, il soldato di leva ripreso da una telecamera mentre veniva pestato, senza alcun motivo, da due agenti di polizia. Immagini che hanno incendiato i rioni dove i falasha vivono ghettizzati a Rehovot, Kiryat Malachi, Beer Sheva e Haifa e nei campi per rifugiati. Ma per chi denuncia di essere stato messo sul gradino più basso della scala sociale e protesta contro la violenza della polizia, le parole non bastano più. Specialmente se sono uguali a quelle già ascoltate negli anni passati. «Faremo di Tel Aviv la Baltimora di Israele», avvertono le schiere più radicali dei giovani etiopi.

La protesta non si placherà facilmente spiegano i rappresentanti della comunità falasha. L’altra sera a Tel Aviv sono stati 46 i feriti degli scontri avvenuti in piazza Rabin quando centinaia di giovani manifestanti hanno tentato di entrare nel palazzo del municipio. La polizia ha usato il pugno di ferro. Ancora una volta. «Né bianchi né neri, solo esseri umani», «Il nostro sangue è buono solo per le guerre», avevano scandito in precedenza gli ebrei etiopi nei pressi degli uffici governativi sotto le Torri Azrieli, accanto alla tangenziale che entra a Tel Aviv. Poi è successo di tutto, con la polizia a cavallo che inseguiva i dimostranti.

Secondo la tradizione ebraica gli ebrei etiopi sarebbero i frutti dell’unione tra re Salomone e la Regina di Saba. Il governo di Israele decise di trasportarli nel proprio territorio con un ponte aereo, in tre operazioni denominate Operazione Mosè, Operazione Giosuè ed Operazione Salomone. I falasha oggi sono circa 120mila e continuano ad avere difficoltà di integrazione in un ambiente molto diverso da quello di origine. L’omologazione dei giovani è svolta dalle scuole e soprattutto dall’arruolamento nelle Forze Armate. Le autorità sono accusate di aver attuato una politica di drastica “israelizzazione” degli ebrei etiopi, ignorando la lingua e la cultura falasha. (mi.gio)