Il sistema della comunicazione sta attraversando una fase di profondi cambiamenti che toccano gli snodi più rilevanti del sistema. Nuovi media, grazie a continue innovazioni tecnologiche, si affermano a vantaggio di altri più vecchi, mentre il pubblico dimostra un’inaspettata capacità di selezione fra un’offerta sempre più ampia. Il rischio che si corre è che le potenzialità del nuovo siano vanificate da scelte politiche che rallentino il processo d’innovazione. La diffusione della banda larga, per esempio, è stata bloccata da contradditorie scelte di politica industriale e ciò ha determinato che la web-tv abbia avuto difficoltà ad affermarsi, secondo quanto richiesto dal mercato. E così la televisione è ancora incentrata sulla «vecchia» tv generalista, dalla quale molti si sono allontanati, passando alla tv a pagamento o all’astinenza vera e propria dalla televisione classica, con un servizio pubblico non ancora affrancato dalle vecchie logiche dell’occupazione da parte della politica, metodi che dovrebbero appartenere ormai alla «storia».

Il nuovo ha difficoltà a subentrare al vecchio. Il rischio è che la comunicazione, che avrebbe dovuto agevolare l’integrazione sociale, abbia accentuato ancor più le divisioni fra chi si emancipa grazie all’utilizzo dei nuovi media e chi ne è escluso, arrivando a una nuova «povertà».

Andiamo con ordine e analizziamo quanto sta avvenendo.

Il digitale terrestre, introdotto pochi anni fa, ha sconvolto il sistema. Attualmente ci sono circa novanta reti a livello nazionale. Un’offerta abbondante che ha consentito a nuovi gruppi di affermarsi (vedi Discovery), e a scoprire diversi canali tematici di valore. La crisi della tv generalista ha ridimensionato il predominio di Rai e Mediaset (insieme avevano il 90% di share nel 2000, poi sono scesi all’85% nel 2005, al 79% nel 2010 e ora sono arrivati al 71%), ma le quote perse dalle reti generaliste sono state in parte recuperate dai loro canali tematici. Nel frattempo la tv a pagamento (segmento nel quale la competizione è ristretta fra Sky e Mediaset) ha aumentato il parco degli abbonati, arrivando insieme a circa sei milioni, il 24% delle famiglie.

Lo «scontro» fra la tv generalista e la pay sta caratterizzando questa fase. La tv generalista perde continuamente ascoltatori, perché i suoi programmi sono troppo ripetitivi e sconfinano, spesso, nel trash e perché il pubblico, o almeno una sua parte, è diventato più selettivo. La crisi della pubblicità (-25% negli ultimi dieci anni; dopo che nel decennio 1990-2000 aveva fatto registrare +47%) riduce inoltre gli investimenti sui programmi e ciò causa un ulteriore scadimento della loro qualità, mentre la tv a pagamento punta tutto sulla qualità e sull’esclusiva dei grandi eventi. Pur avendo raggiunto una quota significativa di abbonati, la pay continua ad intercettare gli spettatori delusi che «fuggono» dalla generalista.

Una prima conseguenza di questo fenomeno è che la televisione non è più un servizio universale, quale è sempre stato. Il servizio pubblico dovrebbe, come una forma moderna di welfare della comunicazione, colmare proprio quest’anomalia.

Nel 2014 il consumo medio giornaliero di televisione è stato pari a 255 minuti (4 ore e 25 minuti), ma va segnalato un atteggiamento diversissimo fra i vari gruppi. Dal pubblico-massa, si è passati a masse di pubblici, in cui vi sono i «bulimici» televisivi e gli «anoressici». I primi sono gli anziani e persone di livello economico e sociale basso, mentre i secondi sono rappresentati dai giovani in particolare. Per essi, ancor più per i cosiddetti nativi digitali, la tv è un medium vecchio per definizione, che usano magari solo per i grandi appuntamenti. Nella storia della comunicazione, c’è sempre un mezzo egemone, quello attorno al quale ruotano gli altri. Negli ultimi trent’anni è stata la tv; ora sta lasciando il posto al web, con velocità diverse fra i vari paesi.

E il servizio pubblico come si pone in questa situazione di cambiamento? Nella sua lunga storia vive oggi il momento più delicato. La Rai è identificata come un’eredità della storia, seppur gloriosa, ma sulla quale è impossibile investire per il futuro per l’acclamata, così sostengono i critici, incapacità produttiva e per una programmazione che non si discosta da quella dei privati. Non a caso il canone è identificato come la tassa più «odiosa». Le ristrettezze delle risorse, il canone che ha un’alta evasione e la pubblicità che attraversa una crisi strutturale, comprimono ancor più gli spazi di mercato. L’attenuarsi degli effetti del conflitto d’interessi, a causa della parabola politica discendente di Berlusconi, ha (stranamente) colpito negativamente proprio la Rai, che di questo conflitto ha subito danni per decenni.

Eppure mai come adesso, in un clima da pensiero unico, ci sarebbe bisogno di un vero servizio pubblico. Non si dovrebbe dimenticare che il servizio pubblico è un fondamentale anticorpo per la democrazia. Se si prendesse atto di questa realtà, sarebbe più facile individuare la corretta riforma della Rai. E si dovrebbe costruire il suo futuro migliorando l’esistente.