«Se ho paura? Certo, ma cerco di ricordare a me stesso che non dovrei, perché penso che la paura non può impedirti di morire, ma di vivere»: Amir Medhat è un giovane egiziano e pochi mesi fa ha rifiutato pubblicamente l’obbligo di prestare servizio militare per un anno. A metà maggio del 2015, Amir ha presentato, unitamente alla domanda – obbligatoria – di sostenere le visite mediche per il servizio militare, anche la richiesta di essere esentato dalla leva per motivi familiari. La procedura è rimasta bloccata per quasi un anno e mezzo. In questo periodo la situazione legale di Amir gli ha impedito di studiare, trovare lavoro, partire. Quando il Politecnico di Milano lo ha accettato per frequentare un corso di laurea magistrale in architettura, sotto la supervisione del ministero egiziano per l’Alta Formazione, Amir ha richiesto l’esenzione per motivi di studio. «Hai già una triennale, è abbastanza» gli hanno risposto i militari quando ha presentato la domanda.

QUEST’AUTUNNO, il giovane ha ricevuto una lettera che lo informava che non poteva seguire il corso a Milano, ma doveva presentarsi all’esercito il 16 ottobre per unirsi al corpo degli ingegneri. Amir è rimasto profondamente deluso: «Ho perso tantissimo tempo, denaro, opportunità ed energia. Per legge la mia leva dovrebbe essere rimandata perché sto studiando all’estero – racconta al manifesto – ho anche inviato una lettera al ministero della Difesa, ad agosto, in cui chiedevo di consentirmi di viaggiare per proseguire i miei studi, ma è stata ignorata».

LA REPRESSIONE sotto il governo di Al-Sisi ha raggiunto nell’ultimo anno un livello senza precedenti: le sparizioni forzate e la tortura, come ha insegnato a molti italiani il caso Regeni, sono all’ordine del giorno, anche verso i minori. Tra i più puniti ci sono i reati di opinione: solo per citare un caso emblematico tra molti, nel 2015 lo studente Amr Nohan è stato condannato a tre anni di carcere per aver diffuso immagini considerate offensive verso l’esercito egiziano. La colpa di Amr era aver pubblicato su Facebook un’immagine ritoccata di Al-Sisi con le orecchie da Topolino.

IN CONFRONTO, la dichiarazione di Amir, pubblicata su Facebook con il titolo «Conscientious objection announcement of Amir Eid», è un atto di guerra. Ci ha messo la faccia e il suo nome e cognome, parlando al mondo da un video sottotitolato in una miriade di lingue: italiano, turco, francese, inglese, spagnolo e tedesco. «Rifiuto che qualcuno possa limitare la mia libertà di pensiero o di espressione, mi rifiuto di essere soggetto a un’organizzazione che non accetta il dialogo e il dibattito, rifiuto che chiunque possa vietarmi di viaggiare o limitare la mia libertà di movimento. Mi rifiuto di far parte di un’istituzione che discrimina sulla base della religione, delle origini e del sesso. Non trovo logico che una recluta non serva il suo paese solo perché ha delle buone conoscenze» dice Amir nel filmato.

DOPO LA PUBBLICAZIONE del video, racconta Amir, «una mattina ho ricevuto una telefonata dalla caserma militare, una persona mi ha chiesto perché non mi sono presentato nella data del 16 ottobre. Non è sembrata sorpresa quando gli ho risposto che dichiaravo la mia obiezione di coscienza, anche se questa parola è relativamente nuova nella società egiziana. Sapeva già che studiavo architettura e ingegneria e mi ha detto che mi avrebbero considerato un disertore, un reato punito con un anno di carcere. Non ho preso sul serio quella minaccia perché so che per legge non possono farlo, finché non mi unisco all’esercito. Per legge ho solo mancato quell’appello, e questo significa che, se mai dovessi fare il servizio militare, questo durerebbe 45 giorni più del normale».
AMIR SI APPELLA alla Convenzione Onu sui diritti umani e al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che, già firmati dal suo paese, regolano il diritto di obiezione di coscienza. «Quando il signore al telefono mi ha chiesto che intenzioni avessi, ho risposto che avrei mandato lettere ufficiali al presidente della Repubblica, al primo ministro, al ministero della difesa e al presidente del parlamento. Allora mi ha detto ok, comunque ti chiamavo per dirti che devi venire qui martedì prossimo, senza specificare perché. Ovviamente non ci sono andato…».

AMIR SA DELL’OBIEZIONE di coscienza dal 2012, quando ha partecipato a una summer school sui diritti umani e iniziato a lavorare in questo ambito. È così che ha conosciuto il movimento «No to Compulsory Military Service», che già dal 2009 si oppone alla leva obbligatoria in Egitto. «Il primo caso di obiezione di coscienza – dice – è stato nel 2010 e non è andato molto bene, perché il ragazzo è stato arrestato e ora è rifugiato negli Usa, mentre altri sei obiettori alla fine sono stati esentati sulla base di motivazioni a caso». Sostenuto dalla sua compagna italiana, che ci tiene a ringraziare, ora Amir ha intenzione di far parlare quanto più possibile del suo caso e di quello di altri due amici obiettori, Samir El-Sharabaty e Kamal El-Gheity, sia per tutelarsi che per sensibilizzare l’opinione pubblica: «Pubblicheremo più che potremo, faremo altri video insieme per parlarne, interviste ai giornali, scriveremo». Ma Amir non vuole fuggire dal suo paese che, si vede anche da quello che scrive su Facebook, ama profondamente: «Certo, voglio viaggiare e vedere il mondo – afferma – ma se tutti i giovani con delle idee lasceranno l’Egitto, questo non sarà mai un posto migliore». E conclude: «Ho ancora speranza che, tra vent’anni, questo paese sarà nostro».