Questa vicenda delle pensioni e del decreto voluto dal ministro dell’Economia per tranquillizzare Bruxelles e Fmi è davvero sintomatica e istruttiva. Dice di come siamo messi e di dove stiamo andando, un po’ come la famosa unghia che permette di ricostruire l’intero leone.

La sentenza della Corte costituzionale vale poco meno di una ventina di miliardi, tra mancati adeguamenti, effetti di trascinamento e interessi. I soldi non ci sono (nel senso che trovarli implicherebbe incidere dove il governo non vuole: patrimoni, rendite e settori di spesa protetti), quindi la sentenza non può essere applicata. Di qui la geniale soluzione suggerita da Padoan e accolta da Renzi, elezioni regionali pendenti. Diamo un segno di attenzione a una parte dei pensionati danneggiati dalla Fornero, augurandoci che tanto basti a quietarli. Quanto agli altri, ai quali non si dà nemmeno questo gettone, pazienza. Se ne faranno una ragione (la grancassa filogovernativa, Repubblica in testa, si sta già adoperando per spiegare al volgo e all’inclita che un sacrificio è dovuto per il bene dei giovani) e sennò pazienza, si vedrà come fare quando arrivassero i ricorsi. Intanto l’Europa avrà avuto la conferma della lealtà del governo italiano ai sacri dogmi della stabilità finanziaria.

La prima domanda che sorge spontanea è dove sia finito in questo paese lo stato di diritto. Ora pare che la questione più importante sia che Brunetta e Gasparri la Fornero l’avessero votata. Ma forse più della coerenza di qualche politico ci si dovrebbe occupare di come un governo della Repubblica si muove di fronte a un pronunciamento della più alta autorità giurisdizionale, incaricata di vegliare sul rispetto della Costituzione da parte del legislatore. Non propriamente quisquilie. Sembra invece che la faccenda interessi a pochi, quasi si trattasse di un dettaglio formalistico. Sicché quello che sta passando è l’idea che una sentenza della Corte non è propriamente una sentenza, ma un consiglio, una raccomandazione. E che alla fine è il governo a dover decidere se e in che misura attenervisi, secondo il modello anteguerra della monocrazia renziana.

La seconda questione concerne la sorte della Corte costituzionale. È sempre più evidente (anche per esperienza europea) che le Corti costituzionali ostacolano l’affermarsi della sovranità di fatto della troika e della finanza internazionale. Come spesso accade, il diritto – in particolare il diritto costituzionale – è al dunque un confine difficilmente valicabile, che fa emergere forzature e illegalità. Lo scontro è politico, e al massimo livello. Le Corti impersonano la sovranità degli Stati ed entrano per forza di cose in rotta di collisione con il processo di consolidamento della sovranità sovranazionale, che non è soltanto quella delle istituzioni europee, ma anche quella del Fondo monetario internazionale e dei mercati finanziari, e quella che il paese o i paesi economicamente più forti esercitano, per interposti organismi comunitari e dinamiche di mercato, su quelli più deboli.
Le irrituali espressioni di malcontento con cui diversi esponenti del governo e dell’entourage renziano hanno commentato la sentenza della Corte in materia di pensioni mostra con nettezza la crescente insofferenza dell’esecutivo nei confronti dell’autonomia dei giudici costituzionali, che un domani potrebbero mettere a rischio anche altre porcherie, tipo l’Italicum. Motivo in più per accelerare il percorso delle «riforme» istituzionali. Presto il capo del governo potrà nominare giudici «responsabili». E i governi non rischieranno più di ritrovarsi nei guai per futili questioni di natura giuridica.

Infine c’è la nobile figura del ministro dell’Economia, che anche in questa vicenda si conferma in un ruolo di protagonista. Pare che, per prudenza, Renzi intendesse rimandare qualsiasi decisione all’indomani del minaccioso voto regionale e che invece, per rassicurare l’Europa, il ministro lo abbia costretto a questa soluzione rapida, indecente sul piano sostanziale (riconoscimento di interessi legittimi e di diritti acquisiti) e formale (obbligo di applicare la sentenza della Corte senza pasticci né sconti arbitrari). Già il fatto che Padoan abbia prevalso la dice lunga sul peso dei poteri di cui è garante.

Del resto si sa che il reuccio non l’avrebbe voluto nel governo e che glielo ha imposto Napolitano – il deus ex machina del governo Monti-Fornero – a sua volta «convinto» dalle centrali europee. Renzi avrebbe preferito un suo uomo per avere piena libertà nell’impiego populistico delle risorse e degli annunci. Con Padoan deve stare attento, perché, a differenza degli altri ministri, non è un incompetente, e perché rappresenta poteri sovranazionali con i quali – come dimostra il caso greco – c’è poco da discutere.
Ora a ciò si aggiunge il fatto che Padoan ha imposto una soluzione «realistica» che viola niente meno che una sentenza della Corte costituzionale. E così abbiamo un’altra bella novità su cui riflettere in questa fase di metamorfosi delle forme politiche: un ministro della Repubblica che, quando si fa sul serio, fa pesare il proprio statuto implicito di emissario della vera sovranità politica e finanziaria; sta dentro il governo ma parla la voce grossa del padrone europeo; e, guarda caso, vince, anche contro la somma autorità giurisdizionale. Poveri noi che non solo credevamo ancora di avere diritto alla pensione, ma addirittura ci illudevamo di essere cittadini di uno Stato costituzionale di diritto.