Che il parlamento non riesca a garantire il plenum della Consulta è il remake di un film già visto: un anno fa, servirono 21 scrutini per eleggere la giudice Sciarra. I suoi sottotitoli confermano un grave deficit di cultura istituzionale tra forze politiche e gruppi parlamentari.

Le prime mostrano una concezione proprietaria di un organo posto a tutela della Costituzione: le loro logiche, solo apparentemente diverse («si fa come dico io», «devono bussare alla nostra porta», serve «il necessario lavorio per convincere chi esita»), esprimono la stessa faziosa egemonia su un organo di garanzia ridotto a cosa loro. Assecondando tali logiche, o perseguendone altre inconfessate al riparo del voto segreto, l’aula parlamentare erode a ogni scrutinio il proprio capitale di credibilità istituzionale, già a livelli di guardia. Con l’aggravante della recidiva: come a inizio legislatura per l’elezione del Capo dello stato, il parlamento conferma una disfunzionalità che tradisce insofferenza verso le figure garanti della Costituzione, quale regola e limite al potere legislativo.
Tutto ciò si paga, a prezzi d’inflazione, specialmente a palazzo della Consulta. La defezione, anche occasionale, di altri due giudici provocherebbe l’arresto cardiaco di una Corte che, già quest’anno, ha spesso deliberato con undici membri. Questioni di costituzionalità problematiche e di grande impatto ordinamentale sono decise a maggioranza, anche con il minimo scarto. Costretta a lavorare a ranghi ridotti, inevitabilmente ridotta è la risposta alle domande di giustizia costituzionale. Manca quella piena collegialità che garantisce – in una Corte dove non è ammessa l’opinione dissenziente – una decisione impersonale davvero condivisa, dunque meglio ponderata.

Su tutto, è la percezione diffusa dell’organo a uscirne stravolta. Lo stallo parlamentare, infatti, è spiegato alla luce delle decisioni cui i nuovi giudici concorreranno: ecco perché ciascuno vuole imporre «il suo». Si accredita così, pregiudicandone l’autonomia, l’idea di una Corte costituzionale da mettere in sicurezza, stritolando anche la biografia di candidati spesso (anche se non sempre) all’altezza del ruolo. È una logica al ribasso: il miglior giudice possibile diventa, infatti, il giurista scientificamente anonimo, o cerchiobottista, o fedele alla linea. Viceversa l’indipendenza di giudizio, unita a una riconosciuta competenza disciplinare, profila l’identikit del candidato preferibilmente da evitare.
«Così va la politica, anima bella», replica il capogruppo di turno, pragmaticamente convinto che sia il necessario accordo politico a dettare i tempi per l’adempimento dell’obbligo costituzionale. È vero, invece, il contrario, stando alla ratio delle regole per l’elezione parlamentare dei giudici costituzionali.

A votarli è il parlamento in seduta comune, mero collegio elettorale che non determina i fini che il soggetto eletto dovrà perseguire (come quando vota il Capo dello stato, o i membri laici del Csm). Lo scrutinio segreto preclude il nome telecomandato. Le elevate maggioranze richieste escludono scelte partigiane. Non c’è riferimento in Costituzione alla necessità che la composizione della Corte rispecchi i rapporti di forza parlamentari (come invece fa per le commissioni permanenti, o d’inchiesta). Nessuna parte politica, dunque, ha il dominio sulla carica di giudice costituzionale.
La logica della Costituzione è, infatti, quella della leale collaborazione, che rappresenta l’altra faccia della separazione tra poteri a governarne i punti d’intersezione. È la leale collaborazione che il Capo dello stato evoca nel suo comunicato del 2 ottobre scorso, qualificando come «doveroso», «fondamentale», da adempiere «con la massima urgenza», l’obbligo costituzionale che grava sul parlamento. In passato dal Quirinale, in situazioni simili, non mancarono messaggi formali alle camere per richiamarle alla loro responsabilità istituzionale: li fecero Segni nel 1963, Cossiga nel 1991, Ciampi nel 2002.
Anteporre l’obbligo ai tempi eterni della negoziazione politica si deve, ma come? Non certo con lo scioglimento anticipato del parlamento: per superare un blocco se ne provocherebbe un altro, che dilaterebbe il primo fino alla convocazione delle nuove camere. Meglio, molto meglio convocarle per scrutini ininterrotti, senza sospenderli e senza porre termine alla seduta, fino a quando non si sia prodotta la maggioranza richiesta (come proponeva già nel 1954 Giuseppe Guarino).

Per un parlamento in conclave, militanti radicali, da settimane, sono in digiuno di proposta (e non di protesta). È lo spauracchio da mostrare ai grandi elettori, se anche il 14 dicembre sarà fumata nera. Bisogna anche «cambiare metodo», ha detto il presidente Grasso. Lo si prenda in parola, sostituendo la terna secca con rose di nomi d’eccellenza, all’interno delle quali i gruppi parlamentari possano – in scienza e coscienza – intrecciare i loro voti.
Se si vuole si può fare. E se si può, si deve fare.