Bernie Sanders, che è del ’41, ha mangiato pane e politica fin dagli anni Sessanta, prima nei movimenti, poi mettendosi in gioco molte volte come candidato a cariche istituzionali, la prima nel 1972. È un politico di lungo corso che, da socialista e fiero di esserlo, ha conseguito risultati di grande rilievo in un’America allergica al termine stesso «socialista», fino a essere eletto senatore del Vermont. Conservando per tutto il percorso un’integrità etica che tutti gli riconoscono e uno spirito indipendente (fino al 2015 non era neppure membro del Partito democratico) più unico che raro nella politica americana.

E mantenendo un costante rapporto con la sua «base» elettorale di sinistra e un’attenzione instancabile verso la classe lavoratrice.

Sanders ha sempre saputo tenere insieme e mettere in relazione tra loro idealità, passione e realismo. Bernie, insomma, è movimentismo dentro una solida cultura di governo. Per questo non stupisce, chi l’ha seguito nel corso della sua lunga carriera politica, l’atteggiamento tenuto lunedì nella convention di Filadelfia, quando ha sostenuto la candidatura di Hillary Clinton senza se e senza ma e non come semplice rassegnazione al minore dei mali. Ha citato Hillary quindici volte, dichiarando che «Hillary Clinton deve diventare la prossima presidente degli Stati Uniti».
Politico di vecchio stampo, Sanders ha un acuto senso dei rapporti di forza, ha una lucida visione del campo di gioco in cui si svolge la partita del momento, e possiede una considerevole capacità di influenzare gli eventi nel loro svolgersi dinamico. Sa combinare tattica e strategia. Altrimenti come sarebbe potuto arrivare fin dove è arrivato, avendo vissuto un’intera vita politica in minoranza?

Proprio per questo suo impasto, Bernie ora sembra condannato a perdere lungo la strada, già in questi giorni, un pezzo dei suoi seguaci e simpatizzanti, che hanno visto in lui solo un radical estremista, dimenticando che Bernie è un socialista. Fa politica per ottenere risultati, non per pura testimonianza.

Sono questi i sanderistas duri e puri, che non intendono piegarsi alla logica del compromesso e accettare Hillary come la loro candidata. Quest’area sanderista, che fa sentire la sua voce dentro e fuori il Wells Fargo Center di Filadelfia, si sta distanziando, non sappiano quanto e se definitivamente o meno, dalla maggioranza in sintonia con Bernie. Immagina, quest’area, che ci possa essere, a questo punto, un percorso autonomo rispetto a quello all’interno del Partito democratico, compresa una convergenza con il partito verde della candidata presidenziale Jill Stein, che, naturalmente, si sta dando da fare per portarli nel suo campo.

Il tragitto scelto e ribadito lunedì da Sanders è invece tutto dentro il Partito democratico, essendo teso a far fruttare al massimo quella che non sarà stata la vittoria sperata, ma rappresenta comunque un risultato politico ragguardevole, anzi eccezionale, e che può essere investito e speso sia nella convention stessa, sia nel prosieguo della campagna elettorale, sia, successivamente, come grande patrimonio politico per incidere significativamente sulla linea e sul futuro del Partito democratico.

Certo, lo scandalo delle email che ha messo a nudo l’imbroglio di una leadership del partito impegnata a ostacolare la candidatura di Sanders, anche diffondendo insinuazioni e invenzioni velenose su di lui, ha rafforzato nell’ala intransigente dei sanderistas l’idea che nel Partito democratico non ci sia spazio per il cambiamento predicato da Bernie.

Di converso, Sanders ha valorizzato le immediate dimissioni di Deborah Wasserman Shultz come il segno del peso che ha la sua corrente nel partito. Così come importante è stato il ruolo dei rappresentanti sanderistas nella stesura della piattaforma programmatica. Così come potrà essere rilevante il peso della sinistra nella composizione di un governo presieduto da Hillary, con incarichi di rilievo affidati a esponenti come Elizabeth Warren o il senatore africano americano Cory Booker. O lo stesso Sanders.

In un passaggio del suo discorso Sanders ha sottolineato come «i giorni delle elezioni vanno e vengono, ma la lotta del popolo per creare un governo che ci rappresenti tutti e non solo l’uno per cento, quella lotta continua». In questi giorni, si sentirà risuonare innumerevoli volte il nome di Bernie Sanders nel Wells Fargo Center, segno di un partito che ha drammaticamente bisogno della massima unità per sconfiggere Trump, un’unità dentro la quale l’area di Sanders ha un ruolo cruciale che le è riconosciuto. Per la prima volta, la sinistra, grazie a Sanders, detiene un pacchetto di voti considerevole dentro il Partito democratico. Sanders non lo regala a Hillary. Da minoranza osservata con la benevola simpatia che si riserva agli idealisti inoffensivi, l’area di Bernie oggi diventa un pezzo significativo dentro il partito, come non era mai successo prima.

In un certo senso, Sanders ha oggi la parte che ebbe Hillary Clinton quando fu sconfitta da Obama nel 2008. I clintonistas ottennero allora posti di rilievo nell’amministrazione Obama – il posto di segretario di stato per Hillary innanzitutto – e, soprattutto, riuscirono a tenere saldamente il controllo del Partito democratico che Obama e gli obamiani avrebbero potuto prendere in mano ma non lo fecero considerandolo ormai un ferro vecchio da sostituire con le «nuove forme» della politica internettiana. Idea lungimirante, quella dei Clinton, come dimostra l’importanza avuta dalla leadership democratica, di salda fede democratica, nel favorire Hillary e ostracizzare Bernie.

Oggi sono i sanderistas che possono giocarsi una bella partita sotto la Grande Tenda democratica, perfino mirando a conquistarne l’egemonia. Se decidono di rimanerci dentro.