Sul rinvio a nuovo ruolo dell’Italicum da parte del Presidente della Corte costituzionale è (ed è da prevedere che resterà) fuori discussione il rigore col quale sarà esercitata quell’alta funzione in questa fase della storia della Corte. Particolarissima per la coincidenza di un esercizio della giurisdizione costituzionale con un esercizio della quota del potere legislativo che spetta, col referendum, al corpo elettorale.

I due atti, pur avendo oggetti diversi (la deformazione dell’istituzione parlamentare con la modifica di 40 articoli della Costituzione e il sistema elettorale per la Camera dei deputati, l’Italicum) diversa forza normativa, (di legge costituzionale l’una, di legge ordinaria la seconda) anche se non collegati, sono fatalmente connessi. Infatti, oggetto del referendum è la modifica della struttura del Parlamento, oggetto della legge sottoposta al giudizio di costituzionalità ne è la composizione, cioè il modo di eleggerne i componenti. Perciò quanto di più rilevante possa esserci ai fini della configurazione di un’autentica rappresentanza politica e quindi della credibilità della democrazia in Italia.

Chiamata a decidere il 4 ottobre su tale tipo di configurazione, la Corte non avrebbe potuto, e non potrà prescindere dalla sua encomiata ed ineccepibile sentenza n. 1 del 2014 sul Porcellum. Le violazione dei principi che la Corte accertò in quella occasione sono state reiterate con l’Italicum. Constatarlo, sanzionarlo, scriverlo in sentenza avrebbe certamente contribuito ad informare le cittadine ed i cittadini motivandoli nella scelta referendaria. Ma i renziani di ogni specie ed i loro patroni avrebbero accusato la Corte di partigianeria, di essere intervenuta nel conflitto costituzionale a fianco dei sostenitori del No. Avrebbero, con la loro furia iconoclasta, provato a delegittimare la Corte che va invece difesa, mai come ora. Mai come ora che l’oggetto del suo giudizio è uno dei fondamenti del regime, la rappresentanza politica, la sua effettività, la sua credibilità.

La Corte ha svolto finora il suo ruolo in perfetta coerenza con la sua ragion d’essere. Lo ha svolto, senza cedimenti o flessioni. Ha dimostrato di saper essere garante della Costituzione. Garante giurisdizionale, certo, perciò vincolato dalle forme e dai limiti della specifica funzione giurisdizionale dettata dalle norme costituzionali. Ma decisivo per la effettività della Costituzione.

La Corte è divenuto anche il solo dei due garanti che si è creduto fossero a guardia della Costituzione. Una augusta dottrina (Guarino, 1951) aveva, infatti, dedotto dall’insieme e dal significato delle attribuzioni che la Costituzione riconosce al Presidente della Repubblica, oltre che sulla base dell’uso frequente della locuzione nelle sedute dell’Assemblea costituente dedicate alla configurazione dell’organo, la conseguenza che gli si dovesse intestare la funzione di garante politico della Costituzione. In due sensi, uno molto ampio di «cura della costituzione …» e cura comporta innanzitutto difesa, l’altro «in senso più limitato … partecipando sia pure in posizione secondaria, a tutti gli atti più importanti della funzione governativa …» per far sì che «si svolga in conformità delle norme costituzionali». L’esperienza degli ultimi mandati presidenziali dimostra che dei due sensi nei quali si poteva dispiegare la garanzia politica della Costituzione, il primo non ha resistito all’ondata del revisionismo purchessia. La promulgazione senza rinvio del Porcellum dall’evidenza incostituzionale plateale, l’omissione dello scioglimento del Parlamento a seguito della sentenza 1/2014 e la prorogatia illimitata di un Parlamento illegittimo, la garanzia promessa, nel discorso del giuramento, per ciascuno dei diritti sanciti nella Prima parte della Costituzione con l’esclusione dei principi contenuti nella Seconda parte, dimostra l’avvenuta estinzione nel ruolo del Capo dello stato della funzione in senso forte di garanzia politica della Costituzione.

Così quella giurisdizionale è diventa l’unica delle garanzie. Intangibile dall’esterno e dal suo interno. Nel secolo scorso sulla titolarità della funzione di garanzia della Costituzione, se dovesse spettare ad un giudice o al capo dello stato, si confrontarono due giganti del diritto costituzionale, Hans Kelsen e Carl Schmitt. Il primo a favore di una Corte, il secondo a favore del Capo dello stato, nessuno dei due accoppiando l’una all’altro. La storia ci dice che, così come i diritti li riconoscono i parlamenti, se sono tali, le garanzie le assicurano i giudici, non gli esecutivi, non i capi degli esecutivi.
Sulla Corte costituzionale italiana grava intanto una responsabilità in più della garanzia da assicurare alla nostra Costituzione, grava quella di salvaguardare una conquista grande del costituzionalismo in Occidente.