Una volta elaborato il lutto, una volta eliminati i responsabili dell’eccidio parigino, che fare delle altre migliaia di adepti al jihad?… Intendendo ovviamente il jihad offensivo, non quello interiore di superamento di se stessi. Mi è capitato di recente di attraversare a piedi il 19°mo Arrondissement di Parigi. Per una buona mezzora mi pareva di esser tornato ad Algeri: strada dopo strada nient’altro che negozi, volti e vestiti di umili maghrebini. Umili e gentili, almeno per il momento.
Su internet scopro ora che il quartiere è bollato come dangereux: a me non sembrava pericoloso per me quanto per loro, visto che le vittime del fanatismo sono al 95% musulmane. (Mi è capitato anche di attraversare il quartiere ebraico nel Marais e chiedere un’informazione stradale: l’unica risposta è stato un mugugno accompagnato da un’occhiata torva. Ma questa è un’altra storia).

L’Isis, trovandosi in difficoltà sul proprio territorio, ha avviato il piano B: lanciare cani sciolti all’attacco del cuore metropolitano dell’Occidente. Questi jihadisti potranno sempre contare sulla simpatia – se non sulla connivenza – di tanti loro confratelli residenti nelle periferie disagiate d’Occidente.

Che faremo allora? Punteremo droni e missili contro le nostre metropoli? Iniziamo, invece, a scandagliare la profondità della frustrazione in cui si dibattono le comunità arabo-musulmane. Iniziamo a sostenere l’aspirazione di chi propugna – se non un Califfato – almeno un’esegesi moderna dei sacri testi, dopo otto secoli di deserto teologico e il colpo finale inferto da Ataturk nel 1924 con la destituzione della khalifa (forse ci penserà Erdogan, ora che ha stravinto le elezioni, a ricoprire la sede vacante una volta eliminato al-Baghdadi…).

Se la Chiesa ha percepito l’urgenza di aggiornarsi con un Concilio nel 1962 – ed era il 21° della sua storia – «aggiornamento» dovrebbe a maggior ragione diventare la parola d’ordine dell’Islam. Perchè da secoli ormai le scuole coraniche – dal Marocco al Bangladesh – non fanno che insegnare a ripetere, alla lettera e in una lingua sconosciuta, brani di un testo del VII° secolo: da cui espungono parole come rahme (misericordia) e gafara (perdono) – ricorrenti nel Corano più volte che nella Bibbia – a vantaggio di parole come harb (guerra) o come thar (vendetta).

I miliziani dell’Isis praticano esecuzioni rituali non solo per asseverare la radicalità dei loro principi, ma soprattutto per sfidare i «crociati» a singolar tenzone e attirarli sul terreno militare. Precisano anche dove: a Dabiq, un villaggio nella piana a nord di Aleppo a pochi chilometri dalla frontiera turca; là si daranno battaglia decisiva le forze del bene e del male. E per confondere ancor più le idee, ci dicono che a guidarli alla vittoria sarà il secondo profeta più riverito dell’Islam, Gesù.

Tempo fa attraversavo Dabiq in direzione della Turchia e mi pareva che i poveri agricoltori locali ignorassero tutto del giorno fatidico in cui saranno risvegliati dal clangore di cozzanti scimitarre e vedranno i loro campi arrossarsi di sangue impuro. C’è poco da sorridere… I parigini che nei giorni scorsi intonavano il refrain della Marsigliese reclamavano qu’un sang impur abreuve nos sillons! («che un sangue impuro irrighi i nostri solchi»).

Ad ottobre, in coincidenza con i primi raid russi in Siria, 55 esponenti religiosi e accademici sauditi hanno pubblicato un appello ai «veri musulmani», scongiurando di «fornire aiuto morale, materiale, politico e anche militare» a chi combatte in Siria contro il regime alauita (e contro Russia e Iran che lo sostengono).

Si riferivano ai miliziani dell’Isis, definiti «guerrieri santi che stanno difendendo l’intera nazione islamica». I firmatari dell’appello al jihad offensivo lo giustificavano con queste parole: «Se i santi guerrieri venissero, Dio non voglia, sconfitti, le nazioni sunnite cadrebbero una dopo l’altra».
Per il momento, a cadere è stato un aereo russo con 224 turisti innocenti (e un cacciabombardiere sempre russo abbattuto dagli F-16 degli «alleati» turchi).
Un diplomatico libanese mi ha raccontato di aver chiesto a dei funzionari sauditi come mai il governo di Ryad consentisse ad esponenti religiosi di perorare la causa della guerra ad oltranza. La risposta è stata: che vuole, caro amico, si tratta di persone influenti e libere di predicare. Il problema è che nella penisola arabica questa libertà di parola viene punita – all’occorrenza – con 1000 colpi di frusta somministrati 50 alla volta, se è il blogger saudita Raif Badawi a voler parlare.

Il governo saudita sta giocando col fuoco. Commette da anni lo stesso errore di calcolo in cui sono caduti gli americani quando finanziarono e armarono contro l’Unione Sovietica i mujaheddin poi spodestati dai Talebani. Fin dall’inizio il neo-califfo Abu Bakr al-Baghdadi invitava i suoi emissari in Arabia Saudita a combattere anzitutto «gli sciiti e i sulul (i difensori della monarchia saudita), prima di attaccare i salibi (i crociati, ossia i cristiani)».

I sauditi giocano col fuoco, anche perché l’autosufficienza energetica conseguita da Obama ha disinnescato il terribile ricatto che vincolava Washington al petrolio di Ryad.

È stato uno dei grandi successi, inseguito con forza da sette anni, di questo lungimirante presidente. D’ora in poi Congresso e Casa Bianca – com’è accaduto in questi giorni – forniranno armi a Ryad solo se lo vorranno, non per imposizione degli amici di Bush.
E in questi flussi e riflussi di alleanze e di inimicizie, anche Turchia e Israele stanno giocando col fuoco. La Turchia perché ha favorito alla grande il transito verso il fronte di giovani «idealisti» votati al martirio. Quanto a Israele, l’inedita vicinanza all’Arabia Saudita voluta da Netanyahu il «cinico» finirà come finì nel 1979 la cinica alleanza di ferro con lo Scià di Persia: male.