Povera Costituzione. Trascinata nel gorgo dei tecnicismi parlamentari, sballottata tra diktat e forzature istituzionali, ogni equilibrio viene sconvolto. La costituzione – si dice – viene scritta in tempi sobri perché possa valere quando si è ubriachi. Ma qui tutti appaiono alcolizzati, facendo venir meno il senso del proprio agire. Alcuni – si dice dalle parti del governo – sarebbero addirittura degli allucinati. Ma come si può pensare di cambiare una Costituzione in questo clima? Basta riattivare la memoria per rendersi conto dello scarto tra ciò che sarebbe necessario e ciò che è.

C’è qualcuno che può immaginare Alcide De Gasperi o Palmiro Togliatti in assemblea costituente che si confrontano a norma di regolamento, minacciando di contingentare i tempi («contingentare»: un’espressione indecente figlia di un tempo morto qual è il nostro). Bisognerebbe lasciar discutere di Costituzione chi nella Costituzione crede. E qui non ci crede più nessuno.

La Costituzione sembra essere diventata solo uno strumento per imporre un’immagine e garantire una politica di governo. Imposta al parlamento con la minaccia del suo scioglimento. Più della disciplina di partito conta il timore di concludere anticipatamente la propria carriera politica. D’altronde il nuovo ceto dirigente sta celermente procedendo alla “rottamazione” (altro termine indecente) della vecchia e colpevole casta. Non limitandosi ad epurare gli esponenti della politica, ma un’intera classe dirigente del Paese. Quel che non fu fatto da Togliatti dopo la guerra è ora realizzato dai nuovi giovani e arroganti governanti. In parlamento il terrore di essere messi da parte ha preso il sopravvento.

Così assistiamo ad una perdita di dignità dell’istituzione parlamentare. È stato rilevato che – in fondo – i tempi di discussione sono stati ampi. Ma la qualità del confronto? In un parlamento commissariato dal governo la discussione è drogata. Si pensi alla irragionevolezza di quanto è avvenuto in commissione e al lavoro dei relatori. Dopo un ampio confronto, che aveva fatto emergere una larga maggioranza contraria al disegno di legge presentato dal governo, s’è fatto finta di nulla e, rimosso qualche incomodo, s’è adottato come testo base proprio quello del governo, minoranza in commissione. Designati i relatori, poi, questi – su loro stessa esplicita ammissione – hanno lavorato facendosi “vistare” dal governo tutti gli emendamenti e concordando con il ministro per le riforme ogni passaggio. Che fine ha fatto l’autonomia dell’istituzione parlamentare e quella dei nostri rappresentanti?

Ora, in aula, l’arma dell’ostruzionismo appare una conseguenza inevitabile. Ma nella lotta tra blocchi contrapposti chi ne uscirà malconcia sarà la Costituzione. Imposta dalla forza dei numeri, ma privata di una legittimazione discorsiva.

Fermatevi, verrebbe da dire. Ritornate a parlarvi. Senza confronto non ci sarà riforma costituzionale, ma solo squilibrio, follia, irriflessività. Rinfoderate il revolver e tornate al confronto pacifico, tornate in commissione stipulando un accordo: nessuno alzi i toni e si dia tempo al tempo. Riformare una Costituzione non è questione da poco, né fatto personale. Si tratta di definire un “ordine nuovo” che si proietti verso il futuro. Oltre gli attuali governanti: oltre a Matteo Renzi e a Giorgio Napolitano, anche al di là di Silvio Berlusconi.

È stato sbagliato legare la riforma al rilancio economico (che opera su tutt’altro piano), alla conclusione dell’attuale presidenza delle Repubblica (che riguarda una scelta del tutto personale di chi attualmente ricopre la carica), alla rilegittimazione di un politico sconfitto (e afflitto da vicende giudiziarie del tutto estranee). La Costituzione non è nella disponibilità dei singoli leader. Solo se si comprende che in gioco c’è un bene più alto delle proprie ambizioni personali o delle pur legittime prospettive politiche si può cambiare la Costituzione. Il punto drammatico di caduta è che oggi questa consapevolezza non c’è.