La grande “Fuga dalle regioni”. Così titolava un commento di Ilvo Diamanti su Repubblica, dopo la massiccia astensione del voto in Emilia Romagna, che chiudeva evocando la “fine del territorio”, come fonte di rappresentanza. Tendenza confermata anche dalla scarsa partecipazione al voto per le primarie del Pd in Veneto. Ma non è più il territorio della “questione settentrionale”. Oggi il territorio va inteso come teatro della dialettica tra flussi e luoghi. Una dialettica che sembra evidenziare una crescente egemonia dei primi sui secondi, se solo pensiamo al flusso della crisi e alle minacce della troika.

Questa dinamica feroce di destrutturazione sistematica delle istituzioni e dei soggetti radicati nei luoghi, dalle imprese di matrice territoriale al tessuto del welfare comunitario, dalle istituzioni della democrazia economica alle rappresentanze delle imprese e del lavoro, si fa oggi egemonia culturale. Chi sta nei luoghi sente che il destino non è più nelle proprie mani, come persone, come cittadini, come comunità. Tale consapevolezza non produce, almeno per ora, conflitto progressivo. Non essendoci chiarezza collettiva della posta in gioco e quindi assenza di una visione condivisa. Esiste invece la tentazione forte del conflitto regressivo, ispirato da una disperazione sociale che trova ogni giorno elementi di nutrimento anche nei media, che aspira al caos come pericoloso veicolo di pulizia. Mutazione antropologica da un conflitto di appartenenza al conflitto molecolare alimentato dalle relazioni di prossimità nelle periferie e nei luoghi di lavoro. C’è una composizione sociale che fa esodo, altro segno indubbio di sfiducia, che preferisce l’exit alla voice, a meno che non sia costretta ad urlare il proprio disagio.

Nel fine secolo, con l’esaurirsi del fragile modello fordista a trazione pubblica, la fabbrica perde progressivamente la sua capacità di essere luogo elettivo del conflitto tra capitale e lavoro. Il conflitto si trasferisce al di fuori delle mura, diluendosi prima nei distretti produttivi e successivamente provando senza successo a ridefinirsi nelle piattaforme produttive. La fenomenologia dei distretti industriali e dei sistemi territoriali di piccola impresa è nota: capacità di coniugare crescita economica diffusa e coesione sociale, in un quadro regolativo relativamente favorevole e con un sistema del credito e della rappresentanza sociale adeguato alla “mediocrità” di un capitalismo familiare, quasi popolare. In questi contesti la regolazione locale è agita da una serie di soggetti che strutturano la microfisica dei poteri locali in una società di mezzo che prova a rappresentare interessi e passioni territoriali presso le sedi istituzionali regionali e nazionali.

In questo la società di mezzo nel suo complesso compie l’errore tragico di assumere pienamente la visione di un mondo in cambiamento nel quale le sorti del capitalismo molecolare, allora vincente, andranno incontro ad una rapida erosione delle sue basi competitive. D’altro canto questa stessa domanda di modernizzazione verrà sussunta dentro la logica del sindacalismo territoriale leghista, ben più efficace del sindacalismo istituzionale espresso dalle diverse rappresentanze, o del populismo leaderistico berlusconiano, vero cavallo di Troia di un’immobile cittadella della rappresentanza incapace di scaldare le piccole fredde passioni dell’egoismo individualista.

Nel Nord è il trionfo del capitalismo molecolare che fa da base sociale all’affermarsi di Berlusconi e della Lega che, ancorché in modo assai discutibile, si fanno portatori di una domanda di modernizzazione senza civilizzazione che assumerà i contorni della ormai mitica “questione settentrionale”. Una questione che, nel bene e nel male, avrà un impatto sull’architettura istituzionale del Paese con i vari tentativi federalistici, devolutivi, ammantati nel linguaggio virulento della secessione e del rinserramento. Ovviamente nella “questione” ci sta anche la paura per un modello capitalistico fragile e scricchiolante perché incapace di darsi adeguate istituzioni quando viene messo alla prova dalla progressiva apertura dei mercati internazionali, dall’introduzione dell’euro, dal mutare del rapporto con il mondo del credito e della finanza, etc.

In quel periodo si compie a mio avviso un passaggio critico nelle sorti della società di mezzo, la quale, anziché prendere atto della necessità di strutturare interessi e passioni all’interno di uno spazio intermedio territoriale nella dimensione delle piattaforme produttive (quelle guidate delle medie imprese che reggono con l’export), rimane sospeso tra istanze localistiche e regolazione nazionale, due sfere meglio presidiate dai populismi di diversa matrice e fortemente connotate in forma difensiva. Insomma in una fase critica di ristrutturazione del capitalismo molecolare ante crisi la società di mezzo non incoraggia il formarsi di una neoborghesia di territorio capace di coniugare flussi e luoghi in una logica “Lobal” e, contemporaneamente, fatica a produrre una dimensione della politica in grado di intercettare la nuova composizione sociale che viene avanti nei grandi centri urbani terziari e il capitalismo delle reti che impatta sul territorio.

Con l’arrivo della crisi, che è innanzitutto crisi interna alla dinamica dei flussi, a rimetterci sono le economie, le società e le istituzioni dei luoghi, alle quali rimane in mano il cerino della gestione del profondo disagio sociale, essendo sempre meno legittimate a rappresentarne le istanze in un quadro di contrazione delle risorse destinate al welfare. Da qui anche i colpi di coda del rancore dei “forconi”, la guerra civile molecolare per la casa nelle neoperiferie urbane e metropolitane, ma anche e soprattutto l’introflessione personale del conflitto (i suicidi dei piccoli imprenditori o dei lavoratori precarizzati o licenziati) o la sospensione esistenziale dei Neet. Vista dai territori la “questione” in sé non è più settentrionale o meridionale per negoziare potere o flussi con lo Stato centrale. Ma è questione sociale aperta che parte dai luoghi, dalle periferie del sistema e fa resistenza ed esodo.

Pare averlo capito anche Salvini, che con la sua strategia da “Lega nazionale” percorre e alimenta il malessere dei luoghi. All’interrogativo politico posto da Ilvo Diamanti sulla fine del territorio si può rispondere o con logiche puramente verticali sull’asse Roma-Bruxelles e di modernizzazione forzata dall’alto, che mi pare caratterizzino il governo Renzi, o privilegiando l’orizzontalità di un’iniziativa politica che ricominci a riconoscere e riconoscersi nella questione sociale aperta che interroga la coscienza politica della sinistra. A cui sarà bene ricordare di non lasciare, come si fece allora, la fibrillazione dei territori e il malessere della coscienza di luogo solo alla Lega.

Ciò che è in gioco oggi non è solo questione di riforme istituzionali, ma la questione sociale è il fare società. Il sindacato con la sua mobilitazione orizzontale dei territori nelle 54 piazze dello sciopero generale pare averlo capito prima della sinistra politica.