Il dibattito pubblico sugli alcolici continua ad essere dominato da due tematiche che paiono procedere in maniera assolutamente indipendente l’una dall’altra: da un lato, si dibatte in che misura le conseguenze sanitarie, ritenute per lo più negative, del consumo di alcolici debbano generare campagne e provvedimenti sollecitanti il comportamento astemio, e, dall’altro, si ragiona come tradurre una produzione vinicola nazionale di sempre maggiore qualità in incoraggiamento del bevitore di tutti i giorni ad adeguarsi ai nuovi stili dettati dalla enogastronomia.

Che in un paese dalle antiche tradizioni vitivinicole, le due tematiche siano incomunicabili non è tuttavia possibile; anzi si può ipotizzare che le nuove tendenze del bere abbiano irrobustito la funzione di protezione dagli eccessi alcolici che quelle tradizioni hanno da sempre svolto.

Questa ipotesi è stata verificata sul campo da Franca Beccaria e dal suo gruppo di ricerca confrontando zone vitivinicole e non del Piemonte per quanto riguarda i rischi e i danni del bere, a fronte della tradizione ed evoluzione negli stili del bere e delle relative pratiche di socializzazione. Franca Beccaria è ricercatrice di formazione sociologica ben nota per i suoi eccellenti studi di confronto fra culture «intoxication-oriented» (quelle nordiche) e «non-intoxication oriented» (quella italiana) e anche questo studio eccelle per rigore metodologico e per interesse di risultati. Pubblicati in un libro agile e di facile lettura (Franca Beccaria. La rivoluzione del bere. L’alcol come esperienza culturale. Carrocci editore, 2016, 119 pagine), i risultati confermano l’ipotesi che una radicata tradizione vitivinicola favorisce il bere sobrio. In particolare, pur nell’ambito di un generale basso livello di consumo a rischio, le zone vitivinicole mostrano ancor più ridotti livelli di «binge drinking» e di bere fuori pasto, sebbene in queste zone sia maggiore il numero di coloro che si dichiarano bevitori moderati. Non è dunque un caso che a questa maggiore sobrietà corrispondano minori morbilità e mortalità per cause alcol-relate.

Lo studio mostra poi come la tradizione vitivinicola si traduca in una cultura del bere che, pur in continua evoluzione, mantiene ben ferma la riprovazione della sbornia, al massimo condonata nell’adolescente in quanto ancora inesperto, mentre conduce l’adulto a ridurre progressivamente il consumo di alcolici orientandolo verso l’assunzione moderata del vino di qualità. Diffusa rimane anche la tradizionale iniziazione familiare al bere vino, in particolare nelle zone di produzione vinicola, dove è curata l’educazione al bere di qualità come parte integrante di una sana alimentazione.

In definitiva, a partire dalle zone definite “vitate” si va espandendo anche ai territori limitrofi la tendenza a considerare il consumo di alcolici, da identificarsi soprattutto con il vino, come un prodotto culturale la cui fruizione richiede l’identificazione e l’apprezzamento delle qualità organolettiche del prodotto, incoraggiando quell’assunzione lenta e moderata della bevanda che da sempre è il modo migliore per evitare l’ubriachezza. A che pro allora condurre campagne antialcoliche che, nella misura in cui si basano su modelli di bere «intoxication-oriented», sono percepite, come accade nei territori studiati, allarmistiche e in contrasto con la realtà?
Insomma, non è un libro a tesi, al contrario fornisce confortanti dati empirici che confermano la millenaria tradizione italiana di controllo ed utilizzo sociale del bere.

*farmacologo, Università La Sapienza, Roma