Ci sono spettacoli che si vorrebbe non finissero mai, come poteva accadere quando da giovanissimi si scopriva per la prima volta la magia del teatro. Come se lì il tempo potesse fermarsi, fuori dall’incombere di quell’altro tempo, l’ingannevole tempo lineare che è una freccia senza bersaglio. Qualcosa che ha a che fare con l’attesa e con l’infanzia, insegnava Tadeusz Kantor. È quel capita davanti al bellissimo Open for everything che Constanza Macras ha rimontato a tre anni dal debutto e il CSS ha presentato al Teatro nuovo Giovanni da Udine.

 

Si è detto «rimontato» e sembra niente, ma pensate cosa vuol dire rimettere insieme questa troupe di una ventina di artisti Rom di paesi diversi, che neppure parlano la stessa lingua, e i cinque musicisti che tessono la trama musicale dello spettacolo, senza contare i danzatori della compagnia Dorky Park che condividono l’affollata scena, a loro volta tutti di nazionalità diverse. Li aveva raccolti, la regista e coreografa argentina, viaggiando fra Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca, in una sorta di prolungato casting che era anche un modo di entrare dentro un mondo vicino fisicamente quanto sovente sconosciuto ai più. E le storie che raccontavano, le abilità che mettevano in mostra, sono entrate poi nella drammaturgia elaborata da Carmen Mehnert, secondo un procedimento che attraversa tutte le creazioni più recenti di Macras.

 

C’è la ragazza che «sembra così indiana» ma è di Most, tiene a precisare, mentre già è partita una danza collettiva in stile Bollywood. C’è Adam che sembra un John Belushi un po’ più grosso, mentre balla con piccoli passi un suo strabiliante hip hop. E Fatima che prima si chiamava Rajmund e naturalmente è la più vistosa di tutte, nel suo desiderio di femminilità. E le altre, che si fanno chiamare Magdi o Vicki, con quelle storie tutte un po’ uguali di matrimoni sballati e figli venuti troppo presto e la voglia di farcela da sole, ora che non sono più ragazzine, senza quegli uomini incapaci di tutto. Ho incontrato anche zingari felici, diceva un vecchio film. Qui sono le parole della prima canzone con cui si cimenta l’orchestrina, guidata da un violino tzigano come ci si può facilmente aspettare, presente sulla scena a lato del container o baracca di lamiera che ne costituisce il fulcro.

 

Ma non bisogna aspettarsi qualcosa di zuccheroso o di condiscendente. Non c’è nulla di romantico o al contrario di vittimistico nell’immagine che Macras restituisce di questo microcosmo Rom – o forse non vuole restituirci nessuna immagine, se s’intende con questo un qualsiasi intento sociologico. E vale qui come per i ragazzini pescati in un quartiere berlinese di immigrazione turca, che animavano la scena di Scratch Neukölln o di Hell on earth, o con i nuovi viaggi che più di recente ha intrapreso nel sud dell’Africa. C’è piuttosto il divertimento che è un po’ la chiave del suo teatro, lo humour agrodolce con cui dà il via a immagini surreali, il gusto tutto politico per la contaminazione, che è poi l’arnese da scasso con cui apre una breccia attraverso cui guardare la realtà contemporanea. A indirizzare lo sguardo in questa direzione basta il piccolo colpo di teatro con cui si apre lo spettacolo, due fari nel buio puntati verso la sala, una vecchia berlina di grossa cilindrata decorata come una borsa di Louis Vuitton: compie un mezzo giro sul palcoscenico e quando si ferma cominciano a uscir fuori da lì gli interpreti, sembrano non finire più. L’importante è essere aperti a tutto, ammonisce il titolo.

 

E intanto sulla scena cantano e ballano, alternando assoli e passi a due ai momenti corali, fra la street dance e un odore di Broadway. Le donne fanno danzare le gonne colorate, in un moto collettivo; gli uomini significativamente preferiscono le esibizioni individuali, come in una gara di bravura. La vecchia automobile danza a sua volta un suo moto pendolare, incrociando una zebra che porta una suora arrivata lì chissà da dove per cantare «sulla porta della chiesa ci sono i mughetti».

 

Da un angolo di una memoria non riconciliata arriva l’evocazione di Leni Riefenstahl e del suo film Bassopiano, in cui la regista del III Reich aveva utilizzato come comparse un gruppo di Rom presi dai Lager. L’uomo più anziano, che se ne sta per lo più seduto da un lato a leggere un giornale, si alza per rivendicare la storia della sua famiglia che dopo cento anni pensa ora di lasciare l’Ungheria.

 

Alcuni momenti sono irresistibili. Come il lungo pezzo danzato su una litania di cinque parole cantate in loop fino allo sfinimento (e all’insensatezza), «Dolce Gabbana Armani Versace Gucci».
Volano panni, se ne vestono e svestono. È una sarabanda trascinante, che dilaga anche sul tetto della baracca. Dove qualcuno sta inginocchiato davanti a una statua della Madonna dall’aureola luminosa. Ed è questa baracca metallica ben più dell’emblema di un ghetto, è una soglia che separa il mondo rimasto fuori da questo luogo magico e infantile dove ancora si può sognare di essere una comunità. Danza, danza, altrimenti siamo perduti, avrebbe detto Pina Bausch. Si accende un fuoco, nel buio, e invece dobbiamo accettare che lo spettacolo finisca.