Nel 2011, nell’arco di soli 16 giorni, la sovranità africana fu violata per due volte da pesanti incursioni militari straniere, senza che l’Unione africana, evidentemente ritenuta un’entità trascurabile, fosse consultata. Fra il 4 e il 7 aprile, le truppe francesi intervenivano in Costa d’Avorio. Alcuni giorni prima, a partire dal 19 marzo, le forze dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (Nato), in particolare francesi e britanniche, avevano cominciato a bombardare la Libia. Secondo l’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki, questi eventi hanno reso evidente «l’impotenza da parte dell’Unione africana nel far valere i diritti dei popoli del continente di fronte alla comunità internazionale ». Eppure c’è un fatto che i media hanno ignorato: in occasione dei due conflitti, l’organizzazione della quale ho presieduto la Commissione dal 2008 al 2013 aveva formulato concrete proposte di soluzioni pacifiche, che però gli occidentali e i loro alleati avevano imperiosamente ignorato.

03pol1 sotto gheddafi sarkozy
Fin dai primi giorni del 2011, in Nordafrica erano avvenuti grandi sconvolgimenti. Il 14 gennaio, fuggiva il presidente tunisino Zine El-Abidine Ben Ali. Il 10 febbraio in Egitto Hosni Mubarak rassegnava le dimissioni. Il 12 febbraio la contestazione arrivava nella vicina Libia. Per i governi occidentali quest’ultima sollevazione fu una manna: permetteva loro di giocare il ruolo degli eroi umanitari e far dimenticare il sostegno che avevano offerto agli altri regimi dittatoriali. Con il voto della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu), il 17 marzo, essi ritennero di aver ottenuto il via libera per iniziare una danza macabra intorno al dirigente libico Muammar Gheddafi.

La nuova battaglia nel deserto

Fra i protagonisti del conflitto figuravano in primo luogo il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) e i suoi eterogenei rivoluzionari, che condividevano un unico obiettivo: disfarsi del tiranno. Per ottenerlo, era indispensabile un supporto esterno.

Gli altri protagonisti erano la coalizione occidentale e il suo braccio armato, la Nato; irruppero come giustizieri in questa nuova battaglia nel deserto. Il loro obiettivo era reagire con ferocia alle azioni di Gheddafi e, come con Saddam Hussein, eliminarlo definitivamente. Ma, per disfarsi di un solo uomo ed evitare un massacro di civili, era proprio necessario scatenare una guerra punitiva di quelle dimensioni e commettere un massacro di civili altrettanto innocenti? Si stava giocando con il fuoco; e si poteva già prevedere il caos che ne sarebbe derivato, come in Somalia, in Iraq, in Afghanistan e altrove.

Il campo occidentale contava naturalmente sul grande fratello statunitense, la «nazione indispensabile», secondo l’espressione dell’ex segretaria di Stato Madeleine Albright. Ma proprio in quel periodo, Barack Obama inaugurava la nuova dottrina del «riposizionamento» verso l’Asia e il Pacifico. Gli Stati uniti, assorbiti dai problemi interni nati dalla crisi economica e finanziaria, avevano anche bisogno di ripiegarsi un po’ su se stessi. E avevano deciso di esercitare la propria leadership mondiale da «dietro le quinte» («leading from behind»). Allora, abbandonando le tradizioni diplomatiche, la Francia si mise alla testa della coalizione internazionale anti-gheddafiana. E diresse le ostilità «da davanti», con la delega internazionale.
Ma chi avrebbe governato la Libia dopo Gheddafi? Chi sarebbe stato in grado di appianare le tensioni interregionali, intertribali e interreligiose che sarebbero nate ineluttabilmente dal prossimo, terribile scontro? Come evitare il caos all’interno del paese e la destabilizzazione all’esterno, soprattutto nel Sahel? In seno all’Unione africana ci facevamo tutte queste domande.

La scelta dell’Onu

La risoluzione 1973 si limitava a chiedere un immediato cessate il fuoco e deliberava l’imposizione di una no-fly zone nello spazio aereo libico per proteggere i civili; escludeva il dispiegamento di un esercito di occupazione. Russia e Cina, in mancanza di risposte sui mezzi previsti per applicare la risoluzione, pur non avvalendosi del diritto di veto avevano prudentemente optato per l’astensione (come Germania, Brasile e India). L’intervento militare, con il ricorso a forze speciali sul terreno, l’aiuto ai ribelli o gli attacchi aerei contro le truppe e i centri di comando, per quelle due potenze rappresentò uno smacco e una strumentalizzazione. Il punto non era mai stato quello di sbarazzarsi di Gheddafi o di imporre un cambio di regime.

L’agire delle potenze occidentali, da molti ritenuto illegale e immorale, suscitò numerosissime reazioni internazionali. Come quella, particolarmente veemente, di Mbeki: «Pensavamo che 150 anni di schiavitù, imperialismo, colonialismo e neocolonialismo fosero finiti. (…) Ma le potenze occidentali si sono arrogate in modo unilaterale e sfrontato il diritto di decidere del futuro della Libia ». Questo «scoppio di collera» esprimeva un sentimento di umiliazione largamente condiviso.

Ai nostri occhi era evidente che lo spettro della guerra civile, della divisione, della «somalizzazione», del terrorismo e del narcotraffico si aggirava per la Libia. Perché eravamo gli unici a vederlo? Perché si faceva quella guerra? Per la difesa della democrazia, o per il controllo del petrolio, o per sordide considerazioni elettorali (Nicolas Sarkozy era già in pre-campagna per le presidenziali francesi dell’anno seguente), o per tutto questo insieme? Non c’erano altre strade, invece di bombardamenti massicci?

La road map africana

L’Unione africana era convinta di sì. Per questo optò per una risposta più politica che militare e si dedicò a elaborare una «road map», adottata il 10 marzo 2011. Il documento era articolato essenzialmente in tre punti: una «cessazione immediata delle ostilità», seguita da un dialogo in vista di una «transizione consensuale»- che escludeva la permanenza al potere di Gheddafi -, con l’approdo a un «sistema democratico» come obiettivo finale. L’Occidente voleva sopprimere un uomo; l’Unione africana voleva cambiare un sistema. Come a sconfiggere questa proposta, il 20 marzo iniziarono i bombardamenti della Nato, proprio mentre stavamo partendo alla volta di Tripoli e poi di Bengasi, per cercare di concretizzare il piano.

Il 19 marzo, il comitato dei capi di Stato, incaricati dall’Unione africana di convincere le due parti del conflitto libico ad accettare i termini di una soluzione politica, si era riunito a Nouakchott, in Mauritania, dopo un primo incontro ad Addis Abeba, in Etiopia, sede dell’organizzazione. Nel bel mezzo della riunione, Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, telefonò per parlarmi con urgenza. Egli stava partecipando, quello stesso giorno, a un altro vertice internazionale che riuniva dirigenti arabi, europei e statunitensi per «decidere e agire collettivamente in applicazione della risoluzione 1973». Il segretario generale mi annunciava che i governi riuniti a Parigi l’avevano espressamente incaricato di chiedermi di dissuadere i nostri rappresentanti dal recarsi a Tripoli e Bengasi. Per una precisa ragione, che mi spiegò: «Le operazioni militari della Nato iniziano oggi».Uno scenario simile, che emarginava l’Onu e le mediazioni dell’Unione africana, si è verificato in Costa d’Avorio. Prova che, per certe potenze, nessuna autorità è superiore alla loro.

Comunque, per noi era solo un rinvio. Il 10 aprile, rappresentanti dell’Unione africana arrivavano a Tripoli per incontrare Gheddafi. Ma il giorno dopo, a Bengasi, i nostri veicoli furono circondati non appena fuori dall’aeroporto, e noi fummo costantemente insultati per tutto il tragitto fino all’hotel dove erano previsti gli incontri. Pensai: «Certamente qui dentro, da qualche parte, ci deve essere Bernard-Henry Lévy».

Mustafa Abdel Jalil, presidente del Cnt, e il suo gruppo iniziarono la riunione sotto l’ininterrotta pressione di una folla di manifestanti aggressivi che continuarono a urlare fino alla nostra partenza. Risultato: Gheddafi accettò la nostra proposta, il Cnt la rifiutò. I piromani avevano vinto sui pompieri. Lo scontro aveva avuto la meglio sul negoziato.

L’Unione africana è stata l’unica organizzazione internazionale a proporre una soluzione politica. Forse perché l’Africa aveva già vissuto esperienze analoghe e ne portava cicatrici indelebili. Si pensi alla tragedia in corso da oltre venti anni in Somalia, paese abbandonato da tutti, dopo il disastro dell’operazione militare statunitense «Restore Hope», nel 1993. E si pensi al caos iracheno e alla disintegrazione attuale di quello Stato.

«L’Afghanistan vicino a casa»

Anche in Libia, come avevamo previsto, il sogno europeo è diventato un incubo. Le strutture statali sono implose a vantaggio dei signori della guerra, dei clan mafiosi e dei terroristi islamo-affaristi; il saccheggio dei depositi di armi ha trasformato il paese in un gigantesco arsenale a cielo aperto; le reti illegali legate all’immigrazione clandestina si sono moltiplicate. Così, la Libia è diventata, per prendere a prestito l’espressione di un ex capo dei servizi segreti francesi, «l’Afghanistan vicino agli europei».

Eppure avevamo avvertito il mondo intero: questa bomba a orologeria sarebbe finita per esplodere nelle mani degli artificieri, che non sapevano quale storia stessero scrivendo. La proposta africana che nessuno voleva ascoltare mirava a convincere Gheddafi a seguire la strada dell’esilio esterno, come Ben Ali, o interno, come Mubarak. Egli avrebbe dovuto rinunciare autonomamente a quella parte di potere che gli rimaneva per risparmiare al suo popolo le disgrazie e le umiliazioni di un intervento straniero, e i tormenti di una guerra civile, il cui esito gli sarebbe stato fatale.

Dietro il pretesto umanitario

Ci eravamo messi alla ricerca di possibili luoghi di esilio. All’interno della Libia, avevamo proposto Sebha, capitale della regione del Fezzan, vicina agli amici dell’Africa nera, in particolare il Ciad. Per l’esilio interno, la Turchia aveva declinato la nostra offerta. Il Venezuela si era proposto, ma questa soluzione era troppo delicata. Avevamo contattato anche l’Egitto, non gradito però ai sostenitori di Gheddafi…

La diplomazia rimane l’arma principale della nostra Unione. La nostra logica è quella della «pace preventiva» e non, come è stato troppo spesso il caso da parte delle potenze occidentali, quella della «guerra preventiva», completamente illegittima. Perché non ci hanno lasciato il tempo di applicare il nostro piano, che Gheddafi aveva accettato? Oggi, guarda caso, il signor Bernard-Henry Lévy, «Bhl», il filosofo francese ipercinetico e guerrafondaio, non parla più della situazione libica. Si dedica ad altri fronti: Siria, Ucraina…

Fra gli attori strategici c’erano poi gli Stati arabi e la loro organizzazione regionale. Al contrario dell’Unione africana, la posizione della Lega araba era praticamente allineata su quella degli occidentali, con il Qatar in testa al gruppo dei guerrafondai. Quanto a Gheddafi, egli non poteva capire che, in un mondo diventato villaggio planetario, tutti i popoli aspiravano a libertà, dignità e giustizia. La sua reazione alla sollevazione popolare veniva da un altro tempo: la repressione.

Eppure, questa eccentrica personalità sembrava arrivata in quel periodo all’apice della gloria. Gheddafi era tornato a essere frequentabile e aveva ottime relazioni con i potenti del mondo: si pensi al suo soggiorno a Parigi alla fine del 2007, con la celebre tenda beduina piantata a poca distanza dagli Champs-Elysées, e al viaggio di Sarkozy a Tripoli nel luglio dello stesso anno; ai buoni voti del Fondo monetario internazionale; agli eccellenti rapporti del leader libico con l’Italia di Silvio Berlusconi. Gheddafi collaborava anche con i servizi segreti statunitensi, britannici e francesi. Ma i sogni grandiosi della «Guida» crollarono come un castello di carte, portate via dallo «tsunami arabo». Davvero, ci addormentiamo con il mondo ai nostri piedi, e ci svegliamo con le bombe che ci cadono in testa.

Il 20 ottobre, l’aviazione francese intercettava il convoglio di Gheddafi. Mentre fuggiva a piedi, egli fu scoperto, atrocemente seviziato da un gruppo di insorti e infine ucciso. La «guerra umanitaria», ammantata dei buoni e nobili sentimenti ispirati al nuovo principio detto «responsabilità di proteggere» – adottato dalle Nazioni unite nel 2005 -, si rivelava una mistificazione. Usata per dissimulare la classica politica di potenza, il cui obiettivo era rovesciare un regime e assassinare un capo di Stato estero.

E stavolta con il via libera dell’Onu.

 

*Ex ministro degli Esteri gabonese, ex presidente della Commissione dell’Unione africana. Autore di Eclipse sur l’Afrique. Fallait-il tuer Kadhafi?, Michalon, Parigi, 2014. (Traduzione di Marinella Correggia, copyright Le Monde diplomatique/ilmanifesto)